«Così la Chiesa ha salvato dal baratro il mio Madagascar»
— 6 Settembre 2019 — pubblicato da Redazione. —Papa Francesco è nella capitale del Madagascar. Conosciamo l’isola rossa col missionario a Manakara don Luca Fornaciari. «La Chiesa cattolica sta facendo un lavoro unico per la promozione della dignità umana, sradicando superstizioni e promuovendo la famiglia, ancora oggi legata alla tribù e alla stregoneria. Infatti il nostro martire è stato ucciso proprio dalla tribù che rifiutava il cristianesimo». L’aggressività di Islam e sette e le razzie cinesi però non fermano il lavoro educativo di una Chiesa che deve affrontare la piaga dell’alcol che distrugge giovani vite e della promiscuità sessuale che si insinua tra gli sposi. «Ma qui nessuno muore di fame perché ci si aiuta tutti».
Oggi Papa Francesco sarà in Madagascar per la seconda tappa del suo viaggio apostolico iniziato in Mozambico. E per l’occasione la Nuova BQ ha intervistato un giovane missionario proprio nell’isola africana. Si tratta di don Luca Fornaciari, sacerdote fidei donum della diocesi di Reggio Emilia e Guastalla che da circa un anno, con il confratello don Simone Franceschini, entrambi della Fraternità sacerdotale Familiaris Consortio, reggono una parrocchia a Manakara, nel sud del Paese. Con don Luca abbiamo cercato di conoscere più da vicino il Paese che oggi riceve la visita del pontefice.
Don Luca, che tipo di Chiesa ha trovato venendo in Madagascar?
Sicuramente una Chiesa davvero vicina al popolo, vivace. Solo dalla mia parrocchia sono partiti in un centinaio per recarsi nella capitale e partecipare all’incontro con il Papa. E tenga presente che si tratta di un viaggio di due giorni, scomodo e lungo. Quindi non è una passeggiata.
Nella sua zona il cristianesimo è penetrato bene?
La maggior parte della popolazione malgascia è cristiana, ma la fede è più radicata nelle zone centrali di più antica evangelizzazione, sulla costa dove siamo noi una piccola parte della popolazione è cristiana e battezzata cattolica. Qui le tradizioni della tribù e i culti ancestrali della famiglia sono ancora molto forti e tante volte rischiano di andare a prevaricare sui principi cristiani nella mente e nel cuore.
Sta dicendo che è una zona di evangelizzazione difficile?
Non esiste un’evangelizzazione facile, però, sicuramente, la Chiesa locale ha ancora tanto cammino da fare per quanto riguarda il condizionamento di credenze popolari o famigliari che rischiano di diventare più importanti della stessa Chiesa, facendo perdere la coerenza tra ciò in cui si crede e ciò che si fa.
Quindi c’è anche una sfida antropologica e culturale?
La Chiesa cattolica sta facendo un lavoro importante per la promozione della dignità umana, per il lavoro, l’educazione, l’assistenza sanitaria. Se il Paese non è sprofondato nel baratro è grazie alla Chiesa che ha sradicato anche superstizioni e credenze. Dove sono io anche solo per una frattura al polso si evita di andare in ospedale e ci si affida allo stregone. Dopo tanti anni in cui la Chiesa ha fatto assistenza anche sociale, adesso si sta concentrando su un’opera di promozione umana e spirituale molto importante.
Quindi si sostituisce allo Stato?
Non nel senso sussidiario che immaginiamo noi, però, ad esempio, la maggior parte delle scuole in Madagascar sono gestite da ordini religiosi, anche femminili. Lo stesso vale per gli ospedali e i lebbrosari nelle campagne dove lo Stato è assente. La Chiesa cattolica ha sempre goduto di grande rispetto e benevolenza da parte di tutti e ha sempre collaborato con le altre Chiese cristiane anche se sta perdendo terreno perché ci sono altre religioni, come l’islamica o le sette, che arrivano con una forza d’urto importante.
Che rapporti avete con l’islam?
Nella nostra zona, che è un’antica zona di insediamento di musulmani, c’è un discreto dialogo, ma nel Nord c’è un proselitismo forte e arrogante e un po’ disonesto. È tutto poco chiaro, arrivano soldi – molti – dall’estero, si incominciano a costruire moschee spesso anche senza fedeli, ma che vengono attirati con la promessa di benessere economico. Lo stesso vale per le sette evangeliche o pentecostali.
E come reagisce la popolazione?
È una strategia – diciamo così – a breve termine, addirittura vediamo casi di seminaristi cattolici che vengono convinti ad andare a La Mecca e poi ritornano imam. Ma, come accade anche da noi, vediamo che le moschee sono inutilizzate perché non riescono a reggere il peso economico di continuare a fare assistenzialismo.
E la Chiesa come opera?
Cerchiamo di aiutare caso per caso nel bisogno concreto e materiale, ma sempre nella logica del patto a lungo termine. Le nostre strutture operanti qui a Manakara, e coordinate dal Centro missionario diocesano di Reggio, cercano la collaborazione con i malgasci. Oppure per quanto riguarda l’educazione cerchiamo di insegnare un mestiere, di offrire una dignità. Lo stesso dicasi per la promozione della cura e l’ambito sanitario. È un approccio diverso, che guarda all’uomo e non al profitto.
Però incombe la sudditanza alle tradizioni famigliari…
Quello della contaminazione di credenze popolari all’interno del tessuto sociale e di ogni famiglia è un problema, effettivamente. Le persone arrivano molto in ritardo a farsi curare, fanno fatica a riconoscere l’ospedale, che vedono come un’intrusione moderna e occidentale e continuano ad affidarsi alla stregoneria.
C’è un problema di accettazione della globalizzazione?
La globalizzazione deteriore viene accettata subito.
Sì?
Ad esempio grazie ai cinesi. Come anche altre popolazioni asiatiche, i coreani, i cinesi a volte fanno la fortuna del Madagascar perché sono commercianti straordinari, ma il risvolto della medaglia è lo sfruttamento del Paese in modo nascosto e non troppo chiaro. I cinesi hanno inondato l’isola di cellulari e automobili e così facendo si stanno accaparrando buona parte della ricchezza.
Questo ha anche ricadute sul piano della promozione umana? Ad esempio, il cardinal Napier ha parlato di nuova colonizzazione con l’aborto…
Questo mi sembra vero per l’Africa continentale, noi siamo un Paese di periferia che è fuori da interessi di geopolitica e strategici, però è anche vero che in Madagascar c’è un problema endemico con il vizio. L’alcol, ad esempio, è una piaga nazionale.
In che senso?
È diffuso dappertutto e a tutti i livelli e molti giovani ci lasciano le penne. Da quando sono qui ho già celebrato due funerali di due ragazzi della parrocchia. Sono morti perché bevevano troppo. È incredibile possa accadere, ma è così.
Come li educate?
Cerchiamo di educarli alla moralità, al rispetto per la propria vita. E questo si riflette nel bisogno di essere educati anche nel rapporto con l’altro sesso.
Promiscuità sessuale?
Molta. Educare alla fedeltà coniugale i malgasci è una sfida molto importante per la Chiesa perché da lì passa un approccio totalmente diverso rispetto alla famiglia e quindi della persona. Insieme all’alcol l’infedeltà coniugale è una delle piaghe che ho incontrato venendo qui.
Be’… in Occidente non aveva un esempio sotto mano?
Certamente, ma qui l’uomo si sente in diritto di andare a cercare una donna più giovane e alla moglie non fa problema. Vige la logica che il matrimonio prevede che ci sia una sussistenza dal punto di vista economico, poi se hai altre amanti… “pazienza”.
Che cosa fate?
La nostra opera è quella di aiutarli testimoniando il sacrificio di Gesù, l’amore di Gesù, il dono di sé di Gesù. E ancora: la benedizione del matrimonio, il buon esempio da dare ai figli, la capacità di fare rete, di essere capaci di offrire ai figli più del nutrimento. Vedo che in generale c’è una difficoltà a pensarsi nel futuro, quello che si ha viene consumato immediatamente.
Che cosa le dà forza in una terra così diversa e lontana dall’Italia?
Un giorno, appena arrivato, ero in un alloggio da solo. Vedevo le mie sicurezza mancare, la mancanza della tecnologia, lontani gli amici e i famigliari. All’ingresso della cappellina della casa della carità dove mi trovavo per imparare la lingua mi colpiva tutte le mattine questa frase: Ampy Andriamanitra.
Che significa?
È l’invocazione di Santa Teresa d’Avila: “Solo Dio Basta”. Mi ha dato molto coraggio e continua a darmelo. A Pasqua sono stato con il vescovo di Manakara a celebrare la Messa di Pasqua in carcere. Sono rimasto colpito dal fatto che oltre il 60% dei detenuti sia ancora in attesa di giudizio, eppure ho trovato molta dignità, voglia di mettersi in ascolto e capacità di cercare Dio per cambiare davvero la propria vita. Questo è meraviglioso.
È un bisogno di riscatto sociale?
Il popolo malgascio non cerca un riscatto, è tranquillo, ma ha una capacità di solidarietà dalla quale dovremmo imparare tutti. Nessuno muore di fame perché ci si aiuta tutti.
Il vostro movimento vi supporta in questa esperienza?
Moltissimo. Dopo 50 anni di presenza missionaria della Diocesi di Reggio il vescovo ha chiesto alla nostra associazione di inviare due sacerdoti che potessero continuare anche quest’opera importante di accompagnamento di tutti i volontari che fanno un servizio in base alle loro competenze. La testimonianza che possiamo offrire è verso la promozione della famiglia e dell’amore coniugale e nella capacità di educare i giovani. Ma per noi è importantissima anche la formazione dei sacerdoti. In tanti qui chiedono di consacrarsi con un desiderio puro e genuino di donazione al Signore. E si sta sviluppando una bella devozione al culto eucaristico che completa le liturgie gioiose.
Quali sono le figure spirituali che vi accompagnano?
Oltre al carisma del nostro fondatore, don Pietro Margini, qui in Madagascar sto approfondendo una figura di martire straordinaria. È proprio di Manakara e si chiama Lucien Botovasoa. Ho avuto la fortuna di seguire l’attività dei francescani a cui questo papà di famiglia era legato.
Perché è un santo che l’affascina?
Perché dopo aver scoperto la vita di San Francesco è stato osteggiato dalla sua famiglia che rifiutava la sua fede in Cristo, vista come una minaccia del mondo occidentale. È stato ucciso dalla tribù, dai propri compaesani. Gli avevano offerto la possibilità di diventare capo tribù a patto di rinnegare Gesù, ma si rifiutò. È stato decapitato e il corpo buttato nel fiume. Nel 2018 è stato beatificato e adesso è un punto di riferimento per tutta la diocesi.
Che cosa si aspetta dalla visita di oggi del Papa?
In questi anni i cattolici malgasci hanno pregato molto per l’arrivo di Papa Francesco. In ogni occasione veniva chiamato “seminatore di pace e di speranza”. La speranza è ciò di cui c’è più bisogno in questa terra.
Fonte: Andrea ZAMBRANO | LaNuovaBQ.it