Proponiamo l’intervista di Tiziana Bartolini ad Ivana Carpanelli avvenuta in ambito del festival di Bioetica di Santa Margherita Ligure ad Agosto per capire come hanno inciso i progressi scientifici e tecnologici nelle persone malate e in chi le cura? Forza e fragilità aprono nuovi spazi alle relazioni umane
Ivana Carpanelli è componente storica e vicepresidente dell’Istituto Italiano di Bioetica nel quale negli scorsi anni ha ricoperto il ruolo di Segretaria Generale e Legale Rappresentante. Grazie alla professione che ha svolto di infermiera e all’attuale attività di formatrice e counsellor, è particolarmente attenta agli scenari del futuro nel suo campo. Nell’ambito della terza edizione del Festival di Bioetica (Santa Margherita Ligure 29 e 30 agosto 2019) modera il Tavolo intitolato ‘Educare alla sostenibilità’. Le rivolgiamo alcune domande.
Durante il suo percorso professionale, anche accanto ai malati oncologici, ha visto notevoli progressi della scienza e della tecnologia. Quali cambiamenti ha potuto registrare nel tempo sia da parte dei medici sia dei pazienti? Mi sono occupata di gestione dell’assistenza e coordinamento della ricerca infermieristica in oncologia in anni molto proficui e ricchi per l’avanzamento delle cure contro il cancro.
Negli ultimi quarant’anni ho assistito ad un progressivo aumento della speranza in una soluzione positiva o quantomeno accettabile della malattia.
Il cancro in molti casi non è più sinonimo di morte e per il malato, ma anche per chi cura, il futuro è rappresentabile in termini di vita buona e degna di essere vissuta.
Il mondo oncologico può essere esempio di contaminazione tra forza e fragilità che, riconoscendosi reciprocamente, danno luogo ad una nuova speranzadi futuro.
E pur vero che la tecnologia può diventare paravento per il curante che non abbia strumenti adeguati ad accettare la propria fragilità di fronte al fallimento e non sia in grado di distinguere il proprio vissuto dal vissuto del paziente
Il vissuto dell’altro ci muove e, quando è doloroso, confligge con il nostro dolore non riconosciuto e relegato nelle stanze recondite della nostra consapevolezza.
A questo proposito è fondamentale un percorso continuo di formazione dei singoli curanti e dell’intero gruppo di cura per rafforzare l’alleanza tra i curanti, il reciproco riconoscimento dei diversi saperi e la valorizzazione di tutte le esperienze. Solo se i diversi componenti dell’équipe di cura sapranno contrapporsi, insieme, alla eccessiva burocratizzazione della medicina, potranno essere protagonisti attivi di un ripensamento della cura in difesa del paziente e di una reale umanizzazione della medicina. I grandi progressi hanno aiutato a sconfiggere la paura della morte?
Questa domanda mi offre l’occasione di giustificare alcune affermazioni che ho fatto nella mia precedente risposta. Proprio sulla questione della paura della morte sono più forti i bisogni di formazione a cui facevo riferimento e in particolare la formazione dell’intera équipe di cura può offrire risultati buoni per la qualità del lavoro degli operatori e, di conseguenza, per la qualità delle cure. Attraverso una formazione che comprenda i molteplici piani che sono implicati nella ricerca e nella cura (scientifico, psicologico, etico e giuridico), i progressi della scienza e della tecnologia possono aiutarci a vivere nella giusta dimensione l’idea di vita e di morte. Da un punto di vista biologico la morte è la cessazione delle funzioni vitali (decesso), ma c’è distinzione fra “decesso” e “morte”. Dalla cultura greca abbiamo appreso che nascere è morire. La morte è l’unica certezza dell’uomo e non è detto che essa debba sempre essere considerata come nemica. Dire “sì” alla vita significa anche accettarne la fine come parte costitutiva della vita stessa. Chi cura può trovarsi di fronte al dilemma se rivelare o meno al paziente che tutti gli sforzi terapeutici ed assistenziali sono stati inutili, che è irrimediabilmente condannato. A questo punto, a soccorrere il curante non è più soltanto la sua competenza professionale, ma soprattutto la consapevolezza che è impegnato in un rapporto comunicativo fra due esseri umani, in cui si gioca la vita di uno dei due. La “qualità della vita” è al centro dell’attuale dibattito intorno alla legittimità etica delle ricerche scientifiche e tecnologiche in campo sanitario. In questo, come in altri campi, scienza e tecnologia non costituiscono soltanto la testimonianza dell’accresciuta capacità da parte dell’uomo di dominare la natura. Ogni esperimento compiuto sulla natura modifica tutto il sistema e richiede nuovi adattamenti e nuove soluzioni, sotto il profilo scientifico, psicologico, giuridico, politico, etico. Da ciò consegue che la responsabilità degli operatori sanitari impegnati nella ricerca e nella cura non è soltanto scientifica e tecnica. A volte può capitare che il curante si trovi a dover accompagnare il paziente verso la fine della sua vita. L’accompagnare l’altro nell’ ultimo tratto del suo percorso può costituire una testimonianza di accettazione della morte, e dunque che si è detto sì alla vita. Sapere che siamo mortali non equivale di per sé ad accettare la morte. Bisogna imparare a porsi con l’immaginazione nella situazione dell’altro e sperimentare la giusta distanza. Disporsi alla morte significa accettare le implicanze della vita: la decadenza psico-fisica, la perdita dei propri cari, i cambiamenti di ruoli sociali e familiari; vuol dire, in ultima analisi fare i conti con se stessi. Il godimento di una buona qualità di vita consiste nel vivere e morire bene, vivendo ogni fase del percorso con dignità. La morte dell’altro è il momento in cui ci si rende conto della differenza tra “morte” e “decesso”, perché trasmette ai sopravvissuti un messaggio che contiene la frustrante idea di un passato pieno e di un futuro vuoto. Quando si ha notizia della scomparsa di conoscenti, o quando giornali e tv ci informano di eventi luttuosi la morte appare come possibilità remota, che in fin dei conti non ci tocca. Ma quando la possibilità si accosta al diventare realtà ci “tocca” più da vicino. Heidegger dice la che la morte è la possibilità di tutte le impossibilità: finché non si realizza, è solo una possibilità, ma il realizzarsi di questa possibilità ha come conseguenza la fine di ogni possibilità, ossia l’impossibilità. Questo è il momento in cui si fa più chiara la differenza fra l’esperienza della morte altrui e quella della propria morte. La stessa impossibilità è “vissuta” in modo diverso dal morente e da chi lo assiste. I sopravvissuti sono parte di una comunità e continueranno ad avere rapporti, a comunicarsi le proprie esperienze, anche mentre stanno elaborando il lutto e si staccano, lentamente, dolorosamente, dal defunto, per “lasciarlo andare”, e così riconoscono l’oggettività della morte, l’irrecuperabilità del rapporto, se non tramite la memoria. Il morente può chiedere di “essere lasciato andare”, che significa per lui diventare “anima”, nel senso di forma che vive solo nel ricordo, e non è prigioniera del corpo e questo può provocare un senso di fallimento in chi si è dato un obiettivo distorto di cura. A volte invece c’è una strenua opposizione alla morte, una angosciata ed angosciante supplica di aiuto, ed anche in questo caso il curante vive un senso di impotenza e di frustrazione al quale a volte fatica a dare un senso. In chi muore coesistono coscienza, impossibilità di delega e incomunicabilità dell’esperienza della morte. Ciascuno vive la propria morte come un fatto privatissimo, che lo isola dagli altri. Si muore da soli, anche se circondati dall’affetto dei parenti. La morte pubblica (in mezzo agli altri), tipica della nostra civiltà, non elimina la solitudine, con tutte le implicazioni psicologiche che essa comporta per chi va e per chi resta. È opportuno che il curante sia conscio di tutto questo, perché quando è testimone dell’angoscia del morente e/o destinatario di una richiesta di aiuto, la sua reazione comporta un’assunzione di responsabilità non solo tecnico-giuridica, ma etico-psicologica, in quanto uomo nel rapporto con un altro uomo che si trova in condizioni di svantaggio, che cerca rassicurazione e conforto da chi gli sta davanti. Karl Jaspers, il capostipite dell’orientamento umanistico in psichiatria, scriveva: “Quando [il curante] si trova di fronte al singolo uomo, non può mai risolverlo totalmente nei propri concetti. Quanto più riconduce a concetti, riconosce e caratterizza come tipico, tanto più riconosce che gli si cela qualcosa di inconoscibile. È sufficiente che sia consapevole dell’infinitezza di ogni individuo, che non può esaurire; come uomo, può vedere di più”.
Che vuol dire educare alla sostenibilità, declinato nel suo campo professionale?
Oggi assistiamo all’emergere di nuove forme di inciviltà sociale, generate da una molteplicità di fattori che fanno riferimento alla complessità della società attuale. Intervenire operativamente e in modo trasformativo sui problemi sociali generati dalla omologazione e dalla spersonalizzazione (la società liquida di cui parla Bauman) in tutti i contesti della vita quotidiana, delle organizzazioni e delle imprese è l’idea di base che gode già della approvazione generica nella collettività, ma è compito prioritario della formazione, di base e permanente, a partire dai primi anni della scuola primaria fino alla formazione professionale continua, offrire un contesto di “apprendimento” che abitui a comportamenti assertivi per andare verso una società che sostituisca l’idea di neotopia (un posto nuovo) al vecchio concetto scettico di utopia (un altrove irraggiungibile). Educare alla sostenibilità in ambito della cura vuole dire sfruttare le competenze implicite e promuovere l’utilizzo sinergico delle nostre diverse intelligenze: quella sentimentale – particolarmente attiva nel femminile -, quella razionale, alla quale è più incline la parte maschile di ogni essere umano e imparare ad ascoltare e gestire le emozioni che l’altro ci sollecita.
Fonte: IstitutodiBioetica.org