L’intervista esclusiva al pedagogista “scomodo”: “La condivisione? Non può essere un business social”
Johnny Dotti ha, dopo di sé, tanti titoli: imprenditore sociale, presidente di Welfare Italia Servizi e docente di analisi e gestione di fenomeni sociali complessi presso l’Università Cattolica di Milano, autore di diversi libri su welfare ed economia, fra cui
Oratori generatori di speranza (Edizioni Messaggero). Apposizioni che affiancano il suo ritratto a quello di tanti uomini “di successo”. Eppure lui, che nasce pedagogista, va in giro per l’Italia ad insegnare che non è necessario sentirsi vincenti per poter esserlo davvero. Per Dotti, essere uomini concreti significa intrecciare la conoscenza con lo spirito pratico. Gli esempi – ricorda – non mancano: San Benedetto, San Filippo Neri, San Giovanni Bosco, per citarne alcuni di quelli che “
tenevano insieme testa, cuore e mani“. Suscita curiosità un imprenditore che cita i santi come modelli di attività imprenditoriale? Quel poco che basta a comprendere che Dotti non è incasellabile. Nato in Italia, ma figlio di emigrati italiani di ritorno dall’Australia, vive con un piede a Bergamo e con l’altro, un po’ sospeso, nell’Australia che non vide mai da piccolo, eppure impressa nel suo nome che faceva il verso a John Kennedy. Erano gli anni che sarebbero capitombolati nel Sessantotto, quello più rivoluzionario e naif. Eppure, invece che da Woodstock,
Dotti impara la rivoluzione dalle pubblicazioni di don Primo Mazzolari e don Milani: preti di campagna e di frontiera, che gli insegnano un modo di poter stare al mondo, cioè vivere. Sulla loro scorta, abbandona gli studi, lascia i genitori e si divide tra orfanotrofi e volontariato. Ritornerà sui banchi più tardi, ma senza rimpianti “perché dovevo rispondere a una mia urgenza” dice. Oggi, forte dei suoi studi in pedagogia, cerca di unire quello che la società – come dice – ha separato.
In Terris lo ha intervistato in anteprima per una lunga riflessione su giovani ed educazione.
Dott. Dotti, può esistere un trinomio istruzione-gratuità-economia?
“Io tenderei a cambiare la parola istruzionecon educazione, perché l’istruzione presuppone sempre un obiettivo e un oggetto. L’educazione, invece, è l’atteggiamento maieutico per mettere alla luce in qualcuno qualcosa che non c’era prima, è il venire al mondo del mistero dell’altro. In questo senso, la scuola oggi non è un luogo di educazione, ma di istruzione, e questo crea molti problemi”
La scuola dovrebbe formare i giovani a diventare adulti concreti?
“In questo momento la scuola è un dispositivo tecnico-burocratico che serve ad addestrare delle persone all’utilizzo efficiente ed efficace della società. Io credo che si debbano valorizzare esperienze di natura educativa sì dentro la scuola, ma anche al di fuori per ricreare uno spazio di incontro reale degli adulti con gli adulti, degli adulti con i ragazzi e dei ragazzi tra di loro”.
Servono, dunque, esperienze concrete?
“La parola concreto vuol dire far crescere insieme le cose. Cosa sono queste cose? Sono le dimensioni umane, cioè lo spirito, l’intelligenza e le sensazioni, ma anche le età diverse della vita, le dimensioni diverse dei saperi. La concretezza non è materialismo, ma l’insieme delle esperienze integrate di vita”
In tal senso, il volontariato può essere un’esperienza concreta?
“Sì, il volontariato è uno dei fenomeni sociali che ha riaperto degli spazi di esperienze di realtà per le persone, dove tu non fai cose solo se ne sei all’altezza, ma perché sono importanti per te e le consideri buone, giuste e belle. In un’esperienza concreta, ciò che ti muove è il senso delle cose, non la loro funzione. Spero che il volontariato non perda tale vocazione e non diventi solo funzionale ad un sistema”
Le cito solo alcuni numeri: in Italia il 24% dei neet (giovani che non studiano né lavorano) ha tra i 18 e i 24 anni per arrivare al 37% dei giovani tra i 25 e i 29 anni. In che cosa stiamo sbagliando?
“Credo che bisognerebbe considerare finita la stagione che considera il diritto allo studio come una cosa separata dal rapporto con la realtà. Purtroppo la gente non immagina di lavorare prima dei 25 anni e questo è un vero problema, soprattutto nella cultura mediterranea e nella cultura che ha radici cattoliche”.
Perché?
“Nella nostra cultura, l’apprendimento è sempre stato sempre socio-culturale, erudito e professionale. Fino agli anni Ottanta, non si separava il momento di relazione con gli adulti dal momento di presa di responsabilità in un contesto familiare, parentale, di vicinato. Oggi si fa un percorso scolastico completamente estraneo alla propria responsabilità e libertà: s’immagina che fare il dovere è studiare fino a 25 anni. Questo è un vero problema in termini di cultura e di maturità umana. Tant’è che si esce di casa a 34 anni, cioè morti”.
Qual è, dunque, il problema dei neet?
“Il problema non sono i neet, ma che manca l’immaginario che narra come si contribuisce al bene di tutti sin dall’adolescenza. C’è l’idea dell’istruzione e quella consumistico-individuale del sapere, ma questo isola le persone, le seleziona in modo più o meno casuale rispetto a delle competenze e crea grandi problemi”.
Come si fa a ricostruire quest’immaginario perduto?
“Innanzitutto ricordando che i diritti individuali non sono un assoluto, ma casomai esistono diritti personali ed obbligazioni morali rispetto al mondo. A partire da lì, servono poi esperienze che riconnettono mani, cervello e cuore”.
Oggi assistiamo a varie declinazioni della sharing economy, dalle piccole start-up alle grandi aziende che dànno molta importanza ai bilanci cosiddetti etici: non si rischia di trasformare la condivisione a mero mantra per far soldi?
“Dopo la crisi del 2007, il capitalismo sta cercando nuove forme di immaginario per generare valore cooperando con le forme che aveva combattuto fino all’altro ieri in cui l’unica visione era centrata sulla produzione meritocratica individuale. Oggi vanno di moda lo sharing, le community, i cosiddetti amici: basti pensare ai tasti principali dei social. Noi dovremmo recuperare il valore della condivisione seguendo la nostra tradizione, che è appunto una tradizione di mutualizzazione dei bisogni, responsabilizzazione dei desideri, capacità di governo dei valori. Il problema è che la nostra tradizione feconda si è persa in un nichilismo individualista”.
Lei si è formato con don Primo Mazzolari e don Milani. La Chiesa oggi continua a raccogliere il loro testimone oppure deve impegnarsi di più?
“Io credo che nel profondo della vita delle persone c’è tanta brace. Purtroppo manca la legna, cioè mancano le dimensioni istituzionali che siano in grado di accompagnare questa vitalità ancora presente all’interno delle comunità. Siamo in una fase in cui le comunità devono riappropriarsi del potere di generare qualcosa, non si tratta di aspettare una legge né un capo né un ruolo”.
E come si fa?
“Si tratta semplicemente di ascoltare la propria vocazione nella vita e mettersi insieme agli altri per generare qualcosa di nuovo. Se non generiamo qualcosa di nuovo, la nostra civiltà può dirsi al tramonto”.
Vediamo tanti giovani nel mondo che nei FidaysforFuture protestano per un mondo più pulito ed il rispetto del creato. È l’inizio di una presa di consapevolezza dei giovani?
“Io credo si tratta di un istinto di sopravvivenza. Spero diventi una consapevolezza comune, che dia adito ad azioni comuni. Certamente, se ci si fa accompagnare alla manifestazione in macchina, siamo lontani. Se cominciamo ad andare tutti a scuola a piedi in bicicletta, facciamo un atto reale, economico, politico, religioso, psicologico, che riconnette salute e salvezza”.
Fonte: Marco GRIECO | InTerris.it