La giornata del 13 ottobre dovrebbe passare alla storia come uno dei momenti più importanti del pontificato di Papa Francesco. Questo a motivo dell’avvenuta canonizzazione del cardinal John Henry Newman, la cui portata ecclesiologica è stata magistralmente illustrata da Papa Benedetto XVI pochi anni or sono. E con ciò, l’elevazione agli altari del porporato inglese verrebbe a sua volta a identificare una delle più importanti visioni del Pontefice emerito, additandolo come profeta di questi tempi tormentosi. Due testi di Joseph Ratzinger, uno da Papa e l’altro quando era ancora cardinale, possono suffragare tale tesi.
Benedetto XVI, nel “Discorso ai cardinali, arcivescovi e vescovi, prelatura romana, per la presentazione degli auguri natalizi”, del 20 dicembre 2010, aveva fatto riferimento alla beatificazione di Newman avvenuta pochi mesi prima, per ricordare la definizione di coscienza dell’allora nuovo beato: non uno spazio di soggettivismo assoluto, sottratto alla relazione con gli altri e con l’Altro, bensì il luogo massimamente intimo in cui ogni persona scopre di sussistere in un legame col Trascendente.
Per lui “coscienza” significa la capacità di verità dell’uomo: la capacità di riconoscere proprio negli ambiti decisivi della sua esistenza – religione e morale – una verità, la verità. La coscienza, la capacità dell’uomo di riconoscere la verità, gli impone con ciò, al tempo stesso, il dovere di incamminarsi verso la verità, di cercarla e di sottomettersi ad essa laddove la incontra (Discorso di Benedetto XVI del 20 dicembre 2010).
Concetto che, se rettamente inteso, fonda e spiega una seconda celebre e sagace tesi newmaniana, cioè la posposizione del Pontefice alla coscienza:
Per poter asserire l’identità tra il concetto che Newman aveva della coscienza e la moderna comprensione soggettiva della coscienza, si ama far riferimento alla sua parola secondo cui egli – nel caso avesse dovuto fare un brindisi – avrebbe brindato prima alla coscienza e poi al Papa. Ma in questa affermazione, “coscienza” non significa l’ultima obbligatorietà dell’intuizione soggettiva. È espressione dell’accessibilità e della forza vincolante della verità: in ciò si fonda il suo primato. Al Papa può essere dedicato il secondo brindisi, perché è compito suo esigere l’obbedienza nei confronti della verità. (Ibidem)
La coscienza viene prima del Papa, non in quanto il soggetto è chiuso alla voce del Papa, ma in quanto la coscienza apre alla verità e quindi a Dio – e ovviamente nemmeno il Pontefice si pone prima di Dio, di quel Dio vero che nella coscienza autentica si manifesta. Certo, Dio si manifesta nella coscienza pura, retta e ben formata e allora il Pontefice dovrà essere inteso come il garante di tale purificazione, correzione e formazione. È evidente che si intenda qui il Pontefice in quanto interviene facendosi voce della Tradizione e assumendosi il compito di confermare i battezzati nella fede ricevuta dalla Chiesa. Una simile garanzia dal Pontefice non si ha quando a parlare è il singolo, l’uomo eletto al soglio pontificio, l’individuo che si esprime con pareri personali. Come distinguere poi i due momenti – la parola del Pontefice e quella dell’uomo – è compito arduo e non ardisco affrontarlo in questa sede.
Da qui si eleva la profezia, di cui ho scritto nell’incipit. Nel centenario della morte di Newman, il cardinale Ratzinger aveva già insegnato che la vera coscienza, luogo della manifestazione di Dio al singolo, «relazione tra Dio e l’anima», è il baluardo da riconoscere e difendere per evitare di rimanere assorbiti dalle ideologie del mondo e per poter mantenere un rapporto vivo con la Verità.
Hermann Goering aveva detto del suo capo: “Io non ho nessuna coscienza! La mia coscienza è Adolf Hitler”. L’immensa rovina dell’uomo che ne derivò, ci stava davanti agli occhi. (Discorso del cardinale Ratzinger del 28 aprile 1990)
Riconoscere la coscienza è scongiurare l’epilogo di Goering, e ciò vale per qualsivoglia nome vogliamo sostituire a quello di Hitler.
Fin qui la dimensione antropologica della coscienza, ma Benedetto XVI ne ha dato anche una lettura ecclesiologica. La coscienza, infatti, studiata ed esplorata a partire dalle intuizioni di Newman, è sì una conquista antropologica e cioè personale, capace di dare una risposta alla ricerca di Senso e di smarcarsi dall’ombra dei totalitarismi. Ma, come emerge dagli scritti di Ratzinger, essa è anche risposta al problema della Chiesa nella modernità: se la Chiesa è custodia del Senso e di quel Senso che ogni uomo può incontrare nel profondo della propria coscienza purificata, allora i moderni possono davvero ritrovare una via e un varco di ingresso nella Chiesa, perché essa non si configurerà più come istituzione estranea al soggetto o peggio come sua nemica (sulla scia delle istituzioni totalitarie), bensì come autentica Madre che educa il soggetto a scoprire la voce di Dio nel suo intimo.
Perciò era un fatto per noi liberante ed essenziale da sapere, che il “noi” della Chiesa non si fondava sull’eliminazione della coscienza, ma poteva svilupparsi solo a partire dalla coscienza (Ibidem)
Se la scoperta di una voce divina nel proprio Io, ripristinata grazie alle indicazioni della Chiesa Madre, è luogo di riscoperta delle relazioni ecclesiali come spazio di espressione massima del sé e non di una frustrazione dell’individualità più propria, allora il Pontefice, in senso newmaniano, quando agisce veramente da Pontefice, funge da figura sintetica di questo processo educativo materno ecclesiale.
… la coscienza, nel suo significato autentico, è il vero fondamento dell’autorità del Papa. Infatti la sua forza viene dalla Rivelazione, che completa la coscienza naturale illuminata in modo solo incompleto, e “la sua raison d’être è quella di essere il campione della legge morale e della coscienza” (Ibidem).
Ecco la profezia. La difesa della coscienza autentica è la via per riappropriarsi di Dio e della Chiesa, o meglio per lasciarsi nuovamente e felicemente abbracciare da questo Padre e da questa Madre.
Ecco la sfida che si staglia nel nostro presente. Al di là dei pareri che si consumano attorno alla figura di Francesco e delle sue dichiarazioni, preoccupa il clima di crescente schieramento ideologico che si respira in molti ambienti ecclesiali. Preoccupa incontrare fedeli e sacerdoti, teologi e volontari, impegnati ad assecondare una moda, a compiacere un ambiguo spirito dei tempi (spesso spirito del mondo), chiusi alla riflessione, indifferenti alla confusione in mezzo cui avanzano, aggressivi con chi gli chieda un redde rationem conforme al depositum fidei che ci è stato consegnato, non disponibili a un vero dialogo e a una vera argomentazione, tanto determinati quanto ottusi, tanto schierati quanto inconsapevoli. Mi chiedo: non rode a costoro la coscienza?
Profetico è dunque aver innalzato alla gloria degli altari un simile faro nella Chiesa, il cardinale Newman, che ci lascia il compito di tornare alla nostra coscienza autentica quale strumento per vincere la crisi di fede e la crisi ecclesiale.
Concludo, sempre con una citazione di Newman ripresa nel discorso di Ratzinger: “I movimenti vivi non nascono da comitati” (Apologia pro vita sua). Più che insistere su tante riunioni, eventi, raduni, lezioni, indottrinamenti, perché non ci impegniamo a creare spazi in cui aiutare fedeli laici e chierici ad ascoltare l’intima voce della loro coscienza autentica? Questa è forse l’estrema via da favorire. Vorrei chiamarla “Opzione Benedetto XVI” e vorrei pensare che in tale prospettiva possiamo rileggere e interpretare anche il senso della rinuncia del Pontefice emerito.
È pensabile che i cattolici vogliano camminare per questa strada? C’è qualcuno nella Chiesa oggi cui tale opzione può far paura?