«AiAi! Chi avrebbe mai pensato che il mio nome, Aiace, si sarebbe accordato così alle mie sciagure! Ora sì che posso gridarlo due, tre volte: AiAi! poiché è immane la sventura che si è abbattuta su di me». Sono parole di Aiace nell’omonima tragedia di Sofocle, a cui ho assistito quest’estate nel teatro greco di Segesta. La brezza serale di fine agosto saliva dal Mediterraneo in dormiveglia sulla destra, temperando l’aria e amplificando la voce naturale degli attori. Attorno a noi l’oro della campagna immobile era macchiato dal verde dei filari delle viti. Come il tempio sulla collina eravamo incastonati tra cielo e terra, la bellezza abbassava le difese come il vino che quelle viti avrebbero prodotto e accettavamo terribili domande sulla vita e sul destino. È questo che deve fare l’arte: portarci, mentre ci incanta, al dunque della vita, liberandoci da luoghi comuni, superficialità e prigioni del cuore e della mente. Aiace ritiene la sua vita ormai inutile: le armi del defunto cugino Achille sono state date dai Greci non a lui, secondo in guerra solo al Piè Veloce, ma a Ulisse che le ha ottenute grazie ai suoi discorsi e alla dea Atena. Il mancato riconoscimento della statura eroica di Aiace scardina la sua mente che trama di trucidare i capi Greci ma, sviata da Atena, uccide, anziché i rivali, gli animali del campo. E ora? A vergogna s’aggiunge vergogna, e l’eroe, che ha contro dei e uomini, per avere la rivincita su di loro, rivolge la spada contro se stesso: il suicidio è per Aiace l’estremo gesto di ribellione con cui recuperare tragicamente la sua statura eroica.
Il mito è l’orizzonte di senso che l’uomo strappa alla vita, ieri come oggi. Achille, Aiace, Ulisse… sono racconti (mythos significa «racconto») che sempre rinascono per sbrogliare la matassa: senza i miti noi perdiamo il filo del discorso della e sulla vita. Oggi la funzione mitica è affidata anche agli eroi dei fumetti, come il Joker che spopola nei cinema, non solo per l’interpretazione di Joaquin Phoenix, ma perché la domanda su come liberarsi dal male ci tocca sempre tutti. Joker, a causa di un passato nefasto, diventa egli stesso incarnazione del male che ha subito prima dalla famiglia e poi dalla società. La sua risata, disperata richiesta di aiuto più che tic nervoso, esplode all’improvviso, suo malgrado, a segnalare che, in un mondo folle, la follia è l’ultimo e il più efficace modo di dire la verità. Nato come nemico di Batman nel 1940, Joker viene regolarmente evocato per avere una risposta: Moore, Miller, nel fumetto, Burton-Nicholson, Nolan-Ledger, Phillips-Phoenix, nel cinema, per citare solo i più significativi, offrono ciascuno un filo alla narrazione del perché del male. Il mondo esce dalle nostre mani sempre al rovescio: ingiustizie, violenze, soprusi, menzogne… e Joker ritorna per obbligarci a guardare nell’abisso del male che subiamo e compiamo tutti i giorni. È la carta che sconquassa un gioco sbagliato, l’eroe del caos che ne rovescia le regole, smascherando l’apparente purezza dei buoni. Come? Per lui l’unico modo di liberarsi dal male è liberare il male che ha dentro, uccidendo chi lo ha generato, la sua vendetta è la «de-generazione»: vendicarsi della vita eliminandone ogni autore, da Dio in giù. Assassinando chi gli ha fatto del male, Joker libera la violenza della massa in attesa gregaria del suo eroe per sentirsi giustificata a sfogare insoddisfazione, rabbia e violenza. Il Joker in noi è il risentimento nei confronti della vita: anche a noi capita di volerci liberare dal male, compiendolo. E se qualche Joker apre la strada, ci sentiamo legittimati a imitarlo, ma la sempre ardua ribellione al male sta nel non diventarne parte e non identificarsi con esso, né dopo averlo ingiustamente subito, né dopo averlo consapevolmente compiuto. Non è vero, come dice il Joker di Moore, che «basta una brutta giornata per ridurre l’uomo più assennato in un pazzo»: il male si vince senza il male, si disinnesca solo col bene.
Aiace esce di scena, abbandonando familiari e amici, per affermare se stesso contro divinità crudeli e uomini falsi. Joker invece devasta la scena e rovescia il meccanismo di oppressori e oppressi ma, alla fine, al male ne sostituisce un altro, a parti invertite: i carnefici diventano vittime e le vittime carnefici. Se Aiace è l’aiai della condizione umana schiacciata dal male, Joker ne è l’apparente liberazione, ma la sua risata di sangue è solo una maschera dello stesso aiai. I due personaggi sono de-menti, resi folli dal male si illudono di opporsi con la distruzione di ciò a cui il male si attacca: la vita. Una soluzione dissennata perché ignara del fatto che il male è solo un parassita della vita, non il suo seme e principio generativo. Non è distruggendo la pianta di cui il male si nutre a sbafo che lo vinciamo, ma curandola e piantandone altre: generando e non de-generando. A noi la scelta.
Fonte: Corriere.it