Compie 900 anni la Charta Caritatis, che regolava i rapporti tra le abbazie cistercensi. E ha molto da dire a chi riflette sulla crisi delle istituzioni democratiche. Lo hanno spiegato a Milano padre Mauro Lepori e Stefano Zamagni
Tesi affascinante e ben fondata: il primo “manifesto” di principi per una civile convivenza democratica è la Charta Caritatis, la costituzione dei monaci benedettini-cistercensi, controfirmata da papa Callisto II nel 1119, appena ventun anni dopo la fondazione dell’abbazia-madre di Citeaux. Un secolo prima della Magna Charta Libertatum, generalmente conclamata come prima formulazione di principi democratici, certamente influenzata dalla Charta Caritatis. Le abbazie cistercensi erano in quel momento tredici: i loro rapporti furono fissati da un testo normativo, una sorta di “patto” fra gli abati, avente come stella polare appunto la carità. Tra parentesi: fra le tredici, una “Clairvaux” e una “Morimond”, da cui le milanesi Chiaravalle e Morimondo, senza le quali la Bassa padana non sarebbe stata per quasi un millennio un capolavoro agro-alimentare assoluto.
Il testo è piuttosto snello: undici capitoletti che occupano duecento righe nella traduzione italiana, tipo 5 o 6 cartelle, ed è attualissimo. Ricorre il nono centenario della sua promulgazione: il Centro culturale di Milano, insieme a padre Mauro Lepori, abate generale dell’Ordine, e al professor Stefano Zamagni, economista e presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali, ha giudicato che la ricorrenza fosse un’occasione non solo per la vita religiosa dei diretti interessati, ma per la vita civile di tutti. La serata milanese con i due protagonisti, venerdì 18, intitolata “Dalla convivenza alla democrazia: la scrittura della carità”, è stata ricca di approfondimenti e di spunti di giudizio anche sull’attualità politica: meditativi quelli offerti dal monaco, pirotecnici quelli lanciati dal professore.
La prima cosa che padre Lepori mette in evidenza è che la Charta non precede, ma è frutto di un’esperienza («Oggi si rovescia questo ordine – commenterà Zamagni – ed è un disastro: basta vedere il giustizialismo»). È frutto anche, prosegue Lepori, “del desiderio che tale esperienza permanga”; ovvero della volontà di “salvare innanzitutto il carisma originario”. Secondo la Charta, la vita di ogni comunità devono seguire fedelmente, in tutte le abbazie, le regola di Benedetto; il primato di Citeaux non deve inficiare l’indipendenza operativa e l’autosufficienza economica di ciascuna: le relazioni sono di “fraternità”, a differenza dal centralismo di Cluny (l’altro grande ramo del dei benedettini). Quindi per salvare il carisma «vogliamo e comandiamo loro di osservare in tutto la Regola di San Benedetto come è osservata nel Nuovo Monastero. Essi non mutino il senso nella lettura della santa Regola». Ma questo è già il capitolo due. Poi nella Charta si introduce il Capitolo generale annuale, luogo dell’unità e del sostegno reciproco nella sequela del carisma. Ed è il capitolo sette. Dove si stabilisce anche il principio della “visita”, come occasione di verifica del cammino.
Ma il primo capitolo… il primo parla di tasse. Notevole, no? Il cuore di tutto è la carità, cioè la carità di Dio. Lepori cita: «Poiché noi tutti ci riconosciamo servi, benché inutili, di un unico vero Re, Signore e Maestro, non imponiamo alcuna tassa né sui beni materiali né sulle cose temporali ai nostri abati e monaci confratelli che Dio, nella sua bontà, vorrà riunire in diversi monasteri sotto una stessa disciplina regolare per mezzo di noi che siamo i più indegni degli uomini. Desiderosi infatti di giovare a loro e a tutti i figli della santa Chiesa, non vogliamo né aggravarli con le imposte, né diminuire le loro risorse, cosicché arricchendoci a spese della loro povertà, noi ci rendiamo colpevoli del vizio dell’avarizia che, secondo l’Apostolo, è una vera idolatria».I cluniacensi praticavano l’Ora; il Labora lo facevano in outsourcing, cioè facevano lavorare gli altri. I cistercensi tornano all’Ora et Labora integrale. «Così arrivarono a produrre ricchezza. – sottolinea l’economista Zamagni – Molta ricchezza», perché sono efficienti. Ricchezza di cui «fare buon uso», dice la Charta. «San Bernardo, cistercense, è il primo a porsi il problema di una ricchezza inclusiva – spiega Zamagni – Toccherà ai francescani, eredi di un fondatore dotato di grande esperienza e spirito imprenditoriale e commerciale, trovare il modo per la redistribuzione della ricchezza: il mercato civile come luogo di circolazione della ricchezza, nato nel 1300 in Umbria e Toscana». «Non è lecito arricchirsi facendo la povertà degli altri, dice la Charta – ricorda Zamagni – per il principio cristiano di fraternità, che non è uguale a solidarietà». Ce n’è anche per l’assistenzialismo («non ha nessun senso della dignità umana»), erede della filantropia seicentesca, «che non c’entra niente con il cristianesimo». Perché? «La Charta Caritatis distingue tra elemosina e beneficienza: questa suppone e attua una relazione umana per una condivisione e una risposta proporzionata al bisogno; l’elemosina no. È da essa che derivano filantropia e, oggi, l’assistenzialismo».Il principio di carità dunque alla base delle relazioni tra comunità monastiche ma anche di un’idea di società civile e di economia. Ma come la carità agisce sulla persona? Padre Lepori: «La Charta Caritatis parla sempre di carità che deve essere educata continuamente, sino alla correzione reciproca. Questo vale innanzitutto per gli abati, cioè i leader delle comunità, chiamati a ridiventare continuamente figli e discepoli. Per tutti il tema è starci a una vita di comunione, fare esperienza di abbandono a un luogo di fraternità. A partire, ripeto, dai leader. Chi guida è il primo che deve essere formato e corretto. Solo così si compie il necessario lavoro dell’unità». Che non è scontato. Nella Chiesa, figuriamoci nella politica: «In quale parlamento oggi – si domanda l’abate generale – si discute, si lavora, ci si impegna per l’unità?».
È la negative politics, per usare le parole di Zamagni, «la delegittimazione delle proposte dell’altro, quali che siano, per massimizzare i propri obiettivi individuali». Ecco la radice: l’individualismo, specie quello libertario della cosiddetta seconda secolarizzazione, negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. «Se la prima aveva come regola aurea comportarsi come se Dio non esistesse, la seconda chiede di comportarsi come se la comunità non esistesse», sottolinea Zamagni. «L’utilitarismo come falsa risposta al bisogno di felicità – prosegue il professore – ha consolidato strutture di peccato, secondo la definizione che Giovanni Paolo II diede nella Centesimus annus» per indicare determinate centrali o assetti di potere, che offrono al popolo menu di scelte irrilevanti per un vero cambiamento. «Ecco perché papa Francesco non parla di riforme, ma di strategia trasformazionale».
Con quale forza? Lepori torna al cuore della questione, la carità, «forma suprema di politica, perché unica forza capace di vincere la divisione. Non una sola volta, ma come possibilità continuamente aperta di trovare una comunione. Che altro è la politica se non servizio all’unità sinfonica di un popolo? Per questo essa è fatta più che dai politici, dai santi, dai profeti e dai testimoni. Da quelli che adorano un amore più grande, o comunque anche inconsapevolmente riconoscono una realtà più grande come principio e scopo dell’azione. Un buon esempio è stato il ministro etiope giustamente insignito del Nobel per la Pace».
A proposito di strategie trasformazionali, Zamagni sottolinea che la vera democrazia è quella che consente non la semplice libertà di scelta, ma la libertà di decisione. La prima restringe il campo al menu proposto dal potere, alle opzioni già messe in campo da logiche che non sono quelle della carità e dell’esperienza di popolo. L’economista ricorda infine due appuntamenti voluti dal Papa per favorire la “decisione” degli uomini di buona volontà rispetto a un ideale che investa il futuro dell’economia e dell’educazione: dal 24 al 28 marzo ad Assisi un forum di mille giovani economisti e imprenditori di tutto il mondo per riflettere su una nuova economia; e a metà maggio un incontro cui sono invitati i capi di Stato del G20 e gli organismi internazionali, come l’Unesco, per firmare un Patto globale sull’educazione.