Nessuno deve essere esentato dai lavori domestici (i figli vanno abituati gradualmente ai loro compiti senza accampare la scusa dello studio)
È evidente che nella Regola di san Benedetto il primato spetti alla vita di preghiera, all’opus Dei, che è l’espressione precipua dell’amore a Cristo. Nel contempo, il grande Patriarca ha ben presente l’esortazione di san Paolo: «Sapete bene come dovete imitarci: poiché noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi» (2Tess. 3, 7-8). E poco dopo, l’Apostolo pronuncia la famosa esortazione: «Chi non vuol lavorare, neppure mangi!» (2Tess. 3, 10). Nelle Istituzioni cenobitiche, San Giovanni Cassiano, fonte primaria di San Benedetto, dedica il libro decimo (Lo spirito dell’Accidia) a commentare questi passi paolini, delineando l’utilità dell’attività lavorativa: guadagnarsi di che vivere, per non essere di peso ad alcuno, correggere i vizi, particolarmente l’ozio e l’impazienza, esercitare la carità fraterna, soccorrendo con il proprio lavoro gli indigenti. Questi sono i preziosi frutti del lavoro, che anche san Benedetto riconosce, purché il lavoro venga esercitato con ordine e precisione, senza affanni e, soprattutto, senza detrimento della preghiera.
Per questo, San Benedetto regola nel capitolo 48 l’alternanza della preghiera e del lavoro, chiarendo fin dall’inizio che «l’ozio è nemico dell’anima. Perciò i fratelli devono dedicarsi in tempi determinati al lavoro manuale e in altre ore, pure ben fissate, alla lettura divina» (cap. XLVIII, 1). Ozio e frenesia sono i due grandi mali che la Regola vuole curare, allora come oggi: l’accidia infatti, come già insegnava Evagrio, si esprime sia con l’indolenza, ma anche con il buttarsi a capofitto nel fare tante cose, senza dare spazio alla preghiera e alla riflessione.
METTERE ORDINE
Chi voglia vivere l'”opzione Benedetto” non può dunque escludere questa progressiva e costante regolazione delle proprie giornate: progressiva, perché certamente non possiamo cambiare tutto dalla sera alla mattina, specie se viviamo in famiglia; ma anche costante, perché non dobbiamo darci l’alibi che il nostro tempo, la nostra particolare condizione, etc., ci rendano esenti dal mettere ordine. L’alternanza equilibrata di preghiera, lavoro, lettura e riposo richiede disciplina ed anche estrema onestà.
Dobbiamo iniziare a porci con franchezza un po’ di domande:
– È così necessario navigare tanto tempo in internet, senza scopi ben precisi?
– Quanto tempo e quanta attenzione perdiamo nello stare sempre con lo smartphone a portata di mano?
– Girovagare per supermercati e outlet, giusto per dare un’occhiata, è il modo migliore per rinfrancare lo spirito e ripartire con i propri doveri?
Può essere utile tener presente l’esempio che San Giovanni Cassiano riporta dell’abate Paolo (cf. Ist. X, 24): questo abate viveva esclusivamente dei frutti delle palme e di quanto ricavava da un orticello. Dunque non aveva bisogno per sé di lavorare più di quanto facesse. Eppure si obbligava ad un certo lavoro quotidiano «per la sola purificazione del cuore, per la salvaguardia dei suoi pensieri, per la permanenza duratura nella sua cella e per la sconfitta vittoriosa della stessa accidia». Il messaggio è chiaro: il lavoro ordinato è un grande antidoto al girovagare dei nostri pensieri, nei quali immancabilmente si inserisce il tentatore, che ci portano lontani dalla concreta volontà di Dio; è infatti tipico dell’accidia farci desiderare di essere altrove da dove si è, fare altro da quanto si deve fare, essere in un’altra situazione piuttosto che quella nella quale dobbiamo vivere.
PER SERVIZIO E CON UMILTÀ
Ma quale lavoro? Certamente ciascuno di noi ha (o si spera abbia) un lavoro retribuito, nel quale le ore di lavoro sono già determinate. San Benedetto ci chiede di vivere il lavoro professionale con dedizione, per il bene nostro e altrui, guadagnando il necessario per vivere e ricordandosi di sovvenire alle necessità di chi si trova nel bisogno, come esorta ancora una volta san Paolo: «In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli» (Atti 20, 45). Dunque, lavorare con spirito di servizio, non generico, ma mettendosi davanti agli occhi sempre i beneficiari del proprio lavoro: la famiglia, i confratelli, quell’amico in difficoltà, quella comunità religiosa da sostenere, e così via.
A ciò si devono aggiungere altre disposizioni interiori. La prima di tutte è l’umiltà. San Benedetto raccomanda ai fratelli che hanno delle abilità, di esercitarle cum omni humilitate (LVII, 1), senza arroganza, spirito di prevaricazione, disprezzo del prossimo. E fuggendo l’avarizia e la disonestà come la peste.
CI SONO ANCHE I LAVORI DI CASA
Ma San Benedetto dedica grande attenzione anche al lavoro domestico. Nel capitolo 35 descrive con chiarezza cosa spetti ai settimanari di cucina; nel monastero infatti tutti i monaci, con turni di una settimana ciascuno, debbono dedicarsi alla cucina e alla preparazione del refettorio, perché, secondo il grande Patriarca, questo è il modo migliore per servirsi reciprocamente e guadagnare «una maggior ricompensa e un maggior merito di carità» (cap. XXXV, 1-2).
Possiamo trarre delle indicazioni concrete per le nostre famiglie.
Se abbiamo capito il valore del lavoro, secondo lo spirito dell’apostolo Paolo e di san Benedetto, allora comprendiamo anche quanto sia importante che in casa ciascuno faccia la propria parte. E la faccia bene. Mi è capitato non di rado di sentire, soprattutto dalla bocca di mamme generose, che i figli in fondo hanno già il loro lavoro, cioè lo studio; e così anche il marito.
Dunque è bene esentarli dai lavori in casa. Nulla di più sbagliato.Se il lavoro è un bene (non assoluto), ed anche il lavoro manuale e domestico, allora esentare qualcuno dal compierlo non è fargli un buon servizio. Ed in effetti, quando in casa pensa a tutto la mamma o la tata, i segni dell’accidia si fanno più evidenti, sia perché subentrano le classiche “occupazioni” oziose (telefonate lunghissime, infiniti scambi di messaggi, perdita di tempo davanti alla tv o alla caccia delle ultime chiacchiere sui blog, vagabondaggio, e quant’altro), sia perché si viene travolti dalla frenesia per correre dietro alle numerose attività del “tempo libero”, che paradossalmente è diventato nelle famiglie un enorme fattore di stress. Invece san Benedetto ci dice che tutti, nella comunità monastica, devono occuparsi dei lavori domestici, a turno; e gli altri monaci devono aiutare, secondo le disposizioni dell’abate, chi è di turno.
Bisogna riabituarsi ed abituare i bambini fin da piccoli:
– a 3 anni si è già capaci di mettere i tovaglioli al posto giusto, o di portar via con attenzione il proprio piatto;
– a 7-8 anni si può già aiutare a preparare una torta, grattugiare il formaggio, pesare la pasta;
– a 10 si può spolverare la propria camera, mettere in ordine la propria biancheria e poco più in là si possono stirare le cose più semplici e fare lavori più complessi.
E tutto dev’essere compiuto con ordine e attenzione, perché da questo dipende la pace di tutta la famiglia. Provare per credere.
Dalla tradizione benedettina possiamo anche imparare un piccolo rito, che dà un tono particolare agli impegni domestici, che spesso vengono sempre compiuti per ultimi e contro voglia. In realtà, nel contesto monastico, esso ha una sua solennità. La domenica mattina, dopo le Lodi, i settimanari, entrante ed uscente, si mettono in ginocchio in coro. Quello uscente prega per tre volte: «Benedetto sei tu, Signore Dio, che mi ha aiutato e consolato» e poi riceve la benedizione. L’entrante, invece, prega così una volta: «O Dio vieni in mio aiuto; Signore, affrettati ad aiutarmi»; poi i confratelli ripetono lo stesso versetto per tre volte; l’entrante riceve poi la benedizione. Si può fare qualcosa di simile in famiglia? Penso proprio di sì. E così si comprende l’importanza del lavoro nella vita cristiana e si assume il giusto atteggiamento di umiltà davanti a Dio e al prossimo.
Fonte: BastaBugie.it