La storia del piccolo Giovannino, abbandonato all’ospedale Sant’Anna di Torino dai genitori perché affetto da una patologia gravissima chiamata Ittiosi Arlecchino, si è conquistata le prime pagine di tutti i giornali. Ed è davvero paradossale che un bambino così piccolo, appena quattro mesi, che non può stare alla luce a causa della sua malattia, sia riuscito a illuminare i cuori delle decine di persone che hanno chiamato in ospedale per adottarlo, non ultimo il Cottolengo, e risvegliare la coscienza intorpidita di migliaia di italiani.
Ma quella di Giovannino è una storia in chiaroscuro, piena di luci e ombre. L’ombra non è soltanto la decisione dei suoi genitori di lasciarlo in ospedale e di non riconoscerlo, ma anche il modo in cui è stato concepito, cioè tramite fecondazione eterologa, e i pericoli insiti in questa pratica. Ed è un’ombra così grande e così scomoda, tanto per i media quanto per la società, che ieri i siti del Corriere e di Repubblica, riprendendo la storia raccontata per prima dalla Stampa, hanno deciso di ometterla.
Alla base della fecondazione eterologa infatti, che prevede la fabbricazione in provetta di un embrione con l’utilizzo di gameti appartenenti a soggetti estranei alla coppia, c’è l’idea (cosciente o no poco importa) del progetto umano. Quando la Corte Costituzionale, nell’aprile 2014, abolì il divieto di fecondazione eterologa contenuto nella legge 40, lo fece nel nome del «diritto al figlio» che lo Stato doveva riconoscere a ogni coppia che lo “desideri”.
Ma un conto è proiettare i propri desideri su un figlio che sta per arrivare, un altro è selezionare in base alla qualità genetica ovuli e spermatozoi per realizzare un desiderio. Che cosa succede infatti quando un bambino, non generato nella carne, ma creato grazie alla manipolazione biotecnologica, non corrisponde al desiderio iniziale, alla qualità “selezionata” e voluta? La verità, ed è la verità che ci insegna Giovannino, è che è molto facile scartarlo.
È sul ricorso alla pratica della fecondazione eterologa fatta dai genitori, che instilla il criterio della qualità del nascituro e lo reifica, rendendo così più ardua l’accoglienza, anche della fragilità e della malattia, qualora si verifichi, che bisogna soffermarsi. E come ha spiegato il dottor Daniele Farina, primario della divisione pediatrica neonatale del Sant’Anna, quella di Giovannino «è una patologia non diagnosticabile con i normali esami eseguiti durante la gestazione. Se uno dei genitori è a conoscenza di una familiarità genetica può richiedere approfondimenti mirati sul Dna». Ma in questo caso metà del patrimonio cromosomico del feto era esterno alla coppia. Una metà che Giovannino non potrà neanche mai conoscere perché anonima.
Massimo Gramellini scrive oggi nella sua rubrica sul Corriere che Giovannino «è venuto al mondo per ricordarci chi siamo». Ha ragione. Ma sbaglia quando aggiunge che dobbiamo «smettere di pensare e cominciare a sentire». È vero il contrario: quando si sarà esaurito lo slancio emotivo che sta spingendo in modo meraviglioso decine di coppie a chiedere di adottarlo, bisognerà cominciare a porsi le domande giuste. Vogliamo essere figli generati nella carne, soggetti certi della nostra origine (amorevole o meno), o creati in laboratorio, oggetti di desideri e volontà, per loro natura volubili?
Fonte: Leone GROTTI | Tempi.it