Recensione di “Una canzone per mio padre”, il film che racconta la storia vera del musicista Bart Millard e del successo enorme della sua “I Can Only Imagine”
In Europa e negli stessi Stati Uniti il Christian Rock – musica cristiana americana – e il Christian Cinema sono oggetto di pregiudizi e stereotipi radicati. Il primo è etichettato come la colonna sonora della “destra religiosa”, astuta operazione commerciale per assorbire nei consumi dell’industria musicale i fondamentalisti della Bible Belt (la cintura degli stati a grande maggioranza protestante nel sud-est degli Usa), stravolgimento dei contenuti sovversivi del rock e rassicurante dolcificazione della sua forma. Il secondo è biasimato per l’estetica scontata, i personaggi unidimensionali e l’immancabile trionfo della fede che ricalca l’happy end del cinema popolare hollywoodiano meno recente.
Una significativa, puntuale smentita arriva da Una canzone per mio padre, il film diretto da Andrew e Jon Erwin distribuito in Italia dalla Dominus Production che è arrivato nelle sale il 7 novembre. Sarà forse l’eccezione che conferma la regola, ma qui il messaggio arriva al cuore dello spettatore, i personaggi principali sono credibili e Dennis Quaid svetta minacciosamente nel cast con un’interpretazione che meriterebbe un qualche premio.
UNA STORIA VERA
Aiuta molto il fatto che si tratta di una storia vera: la storia della genesi della canzone I Can Only Imagine, la hit di Christian Rock più ascoltata nel mondo, la prima ad essere certificata disco di platino (1 milione di copie vendute o scaricate digitalmente) e la più venduta di tutti i tempi, avendo ormai superato i 4 milioni di copie, cioè la quarta certificazione Platinum. Soprattutto la canzone è uscita dal circuito del Christian Rock ed è stata trasmessa innumerevoli volte da radio non cristiane, richiesta da ascoltatori di ogni estrazione religiosa e non religiosa.
La storia vera consiste nel fatto che Bart Millard, autore della canzone e frontman della Christian Rock band dei MercyMe (nome apparentemente bigotto ma in realtà ironico, perché l’“Abbi pietà di me!” in questione non è tanto quello delle invocazioni liturgiche ma quello degli ascoltatori che non gradirebbero il genere musicale), è cresciuto senza madre, che ha abbandonato la famiglia quando lui aveva 10 anni, condannato a convivere con un padre alcolista e violento, motivo della dipartita della mamma dal tetto coniugale e fonte di infinite frustrazioni e sofferenze, fisiche e morali, per Bart prima bambino e poi adolescente.
DOLORE E PERDONO
Ed è storia vera pure il fatto che la musica e la fede cristiana lo hanno salvato da droga, alcol e teppismo, fatali approdi di schiere di adolescenti americani vittime delle separazioni familiari e dell’autolesionismo dei genitori (il secondo compagno della madre, si viene a sapere, è stato peggiore del primo). Un paio di cuffie audio che ti trasportano nel mondo incantato di Amy Grant ma anche in quello degli U2, un campo estivo dove i ragazzini non ti fanno i dispetti e gli adulti ti incoraggiano a non lasciarti andare, una professoressa che riconosce il tuo talento e un gruppo di coetanei che hanno bisogno di te per cantare le lodi del Signore in salsa rock possono essere la salvezza, e di sicuro ti permettono di sopportare violenze psicologiche e fisiche di un padre mostro.
Ma manca sempre qualcosa, quel qualcosa che costruisce i ponti fra il sogno e la realtà. C’è qualcosa che suona sempre un po’ inautentico, un po’ artefatto nella musica della redenzione. È quello che succede quando ti rifiuti di cantare il tuo dolore, la tua sofferenza: ineludibile levatrice del genio artistico, tramite necessario delle ricchezze estetiche dell’anima. Ma quando il dolore consiste nella perdita della madre e negli abusi da parte del padre, la sua sublimazione estetica non può non passare attraverso quell’atto umanissimo e sovrumano allo stesso tempo che è il perdono.
NEL NOME DEL PADRE
Senza perdono la musica di Bart Millard non può mettere le ali e il cammino di conversione che il padre confusamente imbocca dopo essersi scoperto gravemente malato non può sfociare in un rinnovato rapporto col figlio. E il perdono ha un volto sovrumano che non è mostrabile in un film ma anche un volto umano che è quello della memoria degli inizi, degli incontri e delle parole che sono state la tua ancora nel momento decisivo quando ti saresti potuto perdere, dell’anima plasmata da migliaia di ore di musica ascoltata che è stata il tuo taumaturgo e il tuo vaccino contro la disperazione.
Qualche anno dopo Millard scriverà I Can Only Imagine a sublimazione del suo dolore per la morte precoce del padre Arthur da poco ritrovato, pervasa di dolcezza al pensiero della visione beatifica a lui concessa nel Regno dei Cieli. Il segreto della canzone, svelato qualche tempo dopo dal suo autore, è proprio questo: il testo è in prima persona, come se chi canta stesse immaginando il proprio incontro personale con Cristo dopo la morte, ma l’ispirazione è in realtà totalmente altruista; Bart si è immedesimato in suo padre e canta i pensieri e i sentimenti che immagina che quest’ultimo abbia nutrito poco dopo la sua conversione e riconciliazione col figlio e poco prima della morte. Non è il levigato risultato artistico di un’intimistica relazione fra Bart Millard e il divino, ma di un triangolo drammatico e carnale figlio-padre-Cristo.
Questa genesi speciale sembrerebbe non essere estranea agli esiti spirituali e morali della canzone, cioè al fatto che migliaia di persone hanno poi scritto a Bart Millard «questa tua canzone mi ha salvato, questa canzone è arrivata proprio quando ne avevo bisogno». «È una canzone per mio padre, ci ho messo dieci minuti a scriverla e musicarla», dirà nel film. Giustamente gli viene replicato: «No, ci hai messo tutta la vita per scriverla».
Fonte: Rodolfo CASADEI | Tempi.it