Il “black friday” per la tutela della vita in Italia
— 25 Novembre 2019
— pubblicato da Redazione. —
Commento sulle motivazioni della sentenza della Consulta sul fine vita. Le espressioni inaccettabili e i punti fermi
Nulla di sostanzialmente nuovo è contenuto nella motivazione della sentenza n. 242 depositata venerdì scorso dalla Consulta, rispetto all’ordinanza n. 207/2018.
Il quadro di fondo è costituito:
- sul piano ordinamentale, dalla rivendicazione da parte della Corte del potere di “gestione del processo costituzionale”, per riprendere una espressione che adopera. Certo, essa aveva dato qualche mese di tempo al Parlamento perché approvasse una legge secondo le indicazioni fornite con l’ordinanza 207; una volta che le Camere non hanno eseguito il compito loro attribuito nei tempi fissati, la Corte ha provveduto all’opera di “riempimento costituzionalmente necessario”. La Corte lo dice in esplicito: non si limita a dichiarare in modo secco se una norma è o meno conforme a Costituzione, procede all’“invenzione del diritto”, in coerenza con quanto teorizzato da presidenti emeriti della Consulta. È materia di riflessione per un Parlamento che avrebbe potuto elaborare quella normativa di equilibrio sull’art. 580 cod. pen. da molti auspicata, disattivando il giudizio di costituzionalità in corso, e che invece vi ha rinunciato e si è fatto scavalcare. È materia di riflessione per chiunque ritenga che le istituzioni rappresentative abbiano ancora un senso;
- sul piano dei contenuti, dalla estensione, che la Corte ribadisce aver operato, della legge sulle dat-disposizioni anticipate di trattamento, sì da costruire una continuità fra le norme della L. 219/2017 e il “riempimento costituzionalmente necessario” realizzato con la sentenza 242. Anche questo dovrebbe costituire materia di riflessione: come Centro studi, insieme con altri, siamo stati accusati di allarmismo, se non di volere l’“accanimento terapeutico”, quando denunciavamo la deriva di morte delle dat; la Consulta ne trae le prevedibili conseguenze, aprendo a prospettive non solo di legalizzazione (se pur parziale) dell’aiuto al suicidio, bensì di vera e propria eutanasia. Dice in sostanza: se si può interrompere il trattamento quando il paziente non è cosciente, in esecuzione di dat, è contrario al principio di eguaglianza non interrompere il trattamento quando il paziente è cosciente, e anzi l’intervento deve porre termine alla vita rapidamente per risparmiargli sofferenze.
Come nell’ordinanza 207, anche la sentenza 242 presenta profili contraddittori, ancora più evidenti nel momento in cui la Corte conferisce alla propria sentenza immediata applicazione:
- allorché non dichiara l’illegittimità dell’art. 580 cod. pen., per l’intera parte dedicata all’aiuto al suicidio, perché ritiene l’incriminazione di tale condotta coerente con la Costituzione, e col diritto alla vita come tutelato da essa e dalla Cedu, e riprende sul punto quanto già scritto nell’ordinanza 207 a proposito della necessaria protezione delle persone deboli e vulnerabili. E però, subito dopo, elenca le condizioni per non applicare l’art. 580 cod. pen., che coincidono con profili di particolare debolezza e vulnerabilità: il tipo di patologia, il livello del dolore e i sostegni vitali in atto. La contraddizione sta nell’evocare l’autodeterminazione “nel congedarsi dalla vita” per un paziente la cui libertà di autodeterminazione è compromessa dalla situazione nella quale versa;
- allorché ribadisce “la necessaria offerta effettiva di cure palliative e di terapia del dolore” a colui che si trova in tali condizioni e non spiega – se le cure palliative sono “necessarie” e vanno rese “effettive” – che cosa accade a fronte di una richiesta di suicidio assistito per la quale non sia possibile attivare la terapia del dolore, a causa delle difficoltà di attuazione della legge n. 38/2010, difficoltà delle quali pure la Corte è consapevole. Essa non risponde alla domanda del come ci si regola se nel caso concreto mancano quelle cure palliative che qualifica “pre-requisito” dell’aiuto al suicidio;
- allorché chiama in causa “un organo collegiale terzo”, il comitato etico, per garantire protezione alle vulnerabilità enunciate. I comitati etici, come ricorda la stessa Corte, sono organismi di consultazione a fronte di sperimentazioni cliniche di medicinali: come si coniuga tale funzione con l’autorizzazione a porre termine a una vita, che la sentenza pare attribuire loro? La motivazione della 242 parla in proposito di un parere che i comitati dovrebbero rendere sull’“uso compassionevole di medicinali” per pazienti che si trovino nella condizioni legittimanti l’aiuto al suicidio. È un capovolgimento di mission: dalla valutazione di farmaci sperimentali alla valutazione di sostanze che provocano la morte.
Nonostante tali gravi e inaccettabili asserti, la sentenza 242 stabilisce dei punti fermi:
- la Corte sancisce senza incertezze che l’aiuto al suicidio vada eseguito solo all’interno del Servizio sanitario nazionale, e con questo esclude il ricorso a cliniche o ad associazioni di natura privatistica. L’on. Cappato sarà probabilmente assolto perché la Corte precisa che questa disciplina vale per il futuro, mentre per il passato, in sua assenza, non si poteva pretendere il rispetto della procedura individuata, ma è certo però che la Consulta esclude la legittimazione di realtà come quelle cui egli si è rivolto;
- la Corte chiarisce che il medico non ha alcun obbligo di procedere all’aiuto al suicidio, e con questo pare riconoscere qualcosa di più ampio dell’obiezione di coscienza come disciplinata, per es., dalla legge sull’aborto. Stabilisce infatti che “resta affidato (…) alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato”: non esige che il medico si dichiari obiettore una volta per tutte con una procedura formalizzata (come fa l’art. 9 della legge 194/1978), ma affida caso per caso la decisione alla sua deontologia;
- se vi è continuità fra la disciplina delle disposizioni anticipate di trattamento e l’aiuto al suicidio, come la Consulta ribadisce in tutta la sentenza, tale omogeneità impone di riconoscere analogo spazio al pieno dispiegamento della coscienza del medico a fronte della esecuzione di dat, pur se la legge n. 219/2017 non riconosce espressamente il diritto di obiezione. In tal senso la Corte sembra risolvere il contrasto fra quanto, nella legge 219, prevede l’art. 4 co. 5, che obbliga il medico a dare esecuzione alle dat, e quanto invece dice l’art. 1 co. 6, che permette al medico di sottrarsi a tale esecuzione se gli viene richiesto qualcosa che contrasta con la deontologia.
La sentenza 242 attribuisce una responsabilità elevata ai medici, i quali – col documento della Federazione degli Ordini di qualche mese fa – hanno coraggiosamente e con coerenza di argomentazioni richiamato il dovere di non dare la morte. Il Centro studi Rosario Livatino, insieme con Scienza e Vita, ha già organizzato un primo workshop sul rapporto fra la legge dello Stato e il codice deontologico, e su quale fra i due prevalga in ipotesi di contrasto, soprattutto se è in discussione un bene fondante quale è la vita. È questo uno dei temi sui quali, alla stregua del deposito della motivazione della Corte costituzionale, sarà necessario tornare in modo approfondito e articolato. A fianco a quello dell’aiuto solidale non a togliersi la vita, bensì a lenire il dolore con cura palliative rese effettive per chiunque ne abbia bisogno, dando piena applicazione alla legge n. 38/2010: spostando così l’attenzione dall’autodeterminazione alla dignità e alla presa in carico della sofferenza.
Fonte: Centro Studi Livatino | Tempi.it
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