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Scoprire la vita, anche nella malattia

Il limite e il bisogno possono essere un’opportunità «per tornare a guardare la realtà come un dono»? Dalle cure palliative all’accompagnamento quotidiano di pazienti e famiglie, l’esperienza di Medicina e Persona

Nel contesto in cui viviamo, anestetizzati dalla distrazione fino alla perdita del gusto del vivere, c’è un nichilismo dichiarato, ma ce n’è uno più mascherato, che lambisce ciascuno di noi: lo stare “in sicurezza”, vivendo al minimo, senza aspettarsi dalla realtà niente di interessante, accontentandosi di non essere disturbati nel fare ciò che si vuole che si tratti di girare il mondo o di ritirarsi, più o meno connessi con il proprio smartphone. Ma che cosa fa fare un primo passo fuori? O quale vento, a volte, spalanca di colpo la porta e strappa fuori quell’uomo che sotto i detriti pur sempre c’è? In altre parole: quando si torna a guardare la realtà come dono?

Ci vuole la sorpresa di qualcosa che non ti aspettavi e che da sempre – senza sapere – speravi. Un albero fiorito in mezzo alla città che ti fa alzare la testa dalle preoccupazioni, l’amico che ti chiama, la luna e le stelle nel firmamento, il sorriso di un bambino… Un segno, insomma, che qualcuno ti ama. E ci sono momenti e luoghi dove sei più attento, sei risvegliato. Basta un’influenza per vedere belle le cose di tutti i giorni la prima mattina in cui torni ad uscire. O due giorni di ricovero per riapprezzare la città quando ti mandano a casa. Limite e bisogno rendono intensi il tempo e lo sguardo.

Confucio dice che abbiamo due vite, la seconda inizia quando ci rendiamo conto di averne una sola. Che non sia, allora, proprio quel limite (e malattia e morte toccano tutti), che oggi alcuni vorrebbero non guardare, a rivelarci, invece, qualcosa? Pochi giorni fa, un giovane malato grave, per l’incontro fatto con un monaco durante la malattia, ha potuto dirmi, parlando della diagnosi drammatica: «Da quel giorno solo buone notizie: sono ancora vivo e ho scoperto molte cose nuove!».

Lo racconta anche, per esempio, la lettera inviata da una mamma alla direzione degli Spedali Civili di Brescia: «Il reparto pediatrico in ospedale è un posto strano. È il posto più triste che esista. Eppure è uno dei più sorridenti che io conosca. Ci sono sofferenze disumane, eppure è un posto di grande umanità. Quando penso al ricovero di mia figlia (settimo in tre anni) penso a stanchezza, notti insonni, lacrime (più mie che sue), dolore fisico (suo) e psicologico (mio), noia infinita, desolazione, solitudine, mille pensieri, ansia. Ma non finisce qui. Perché durante il ricovero, se nel posto giusto e se si vive con occhi e cuori aperti, si vivono tante cose belle. Eccezionali. Rare. Si vedono sorrisi, carezze, abbracci, parole dolci, pazienza, sostegno, volontariato. Quando penso ai giorni appena trascorsi penso ai 15 volontari che hanno giocato con mia figlia. Facendo scorrere le ore. Facendola divertire e distrarre. Permettendo a me di stendermi una mezz’ora senza pensare a niente. Penso a vicini di camera che chiacchierano, che ti portano del caffè quando non puoi uscire. Penso alle oss che portano mia figlia in bagno mentre sono al colloquio col dottore. Penso alle infermiere che sono sempre disponibili e col sorriso. Penso ai dottori che trasmettono grande competenza, comprensione e pazienza nello spiegare la situazione. Penso ai clown che ci fanno sorridere. Non impari a conoscere il valore del volontariato finché non hai vissuto certe cose. Persone mai viste che impegnano il loro tempo libero per alleggerire la sofferenza altrui. Si dice che a Natale le persone sono più buone: io credo sia così anche in ospedale. I dipendenti, dal primario fino alla signora delle pulizie, hanno la mia massima stima. Perché dimostrano la loro bontà giorno per giorno, nel caos, nella frenesia, nella sofferenza che li circonda. E i volontari hanno la mia massima gratitudine. E poi in ospedale vedo un’altra rarità: la bontà̀ non ha confini. Vedo l’infermiera spiegare con santa pazienza la terapia alla mamma asiatica che parla italiano con fatica. Nei corridoi, donne col velo passano a fianco a suore: nella sofferenza diventiamo tutti uguali. Parte di me è dispiaciuta, desolata e spaventata quando penso a quanto tempo dovremo passare ancora qui. Ma una parte ne è quasi contenta, perché ho il privilegio di vedere la bontà, l’umanità e l’amore in modo ormai raro. E sono convinta che queste esperienze, pur essendo sofferenze, aiuteranno mia figlia a diventare una donna forte, buona, con orizzonti ampi e con la certezza che nella sofferenza Cristo si fa sentire più che in ogni altro momento, direttamente o attraverso uno sguardo, un sorriso o la mano di un estraneo. L’ospedale, sembra assurdo, è uno di quei luoghi che mi fanno ancora sperare nel futuro e nell’umanità».

Il limite provoca e risveglia. Ma basta a restituirti il desiderio? No, occorre, come dice questa mamma, non essere soli, occorre una presenza. Lo sapeva bene Cicely Saunders, fondatrice delle cure palliative, quando, dopo aver trascorso 15 anni con i malati gravi, ha inventato gli hospices perché ci fosse un luogo, una casa per chi non può più stare a casa propria. Infatti, aveva ben visto che la domanda di un uomo che soffre è sempre il grido di una sofferenza totale: fisica, psichica, sociale e esistenziale. Include sempre quella domanda: «Perché a me? Che senso ha quello che mi sta succedendo?». E ha inventato una nuova branca della scienza medica (la Medicina palliativa) e formato operatori proprio perché ci fosse una presenza competente e umana davanti a ciascuno di questi ammalati. Da sola ha cambiato il mondo.

La professoressa Sylvie Ménard, oncologa, responsabile per anni della ricerca all’Istituto Nazionale dei Tumori e favorevole alla autodeterminazione del morire, quando ha saputo di essere malata ha cambiato posizione sull’eutanasia e da anni dedica il suo tempo ad aiutare tutti a non fare confusione: la morte degna è un problema dei sani non dei malati, che chiedono, invece, una vita dignitosa, cioè essere curati al meglio, assistiti e non lasciati soli. Recentemente a Udine, all’incontro di presentazione della mostra “L’abbraccio del Pallium, misericordia e cura”, ha raccontato come a questo sia giunto anche il suo maestro Umberto Veronesi, che scriveva: «Se è curato bene, difficilmente il paziente chiede di morire. Se è curato con affetto, con amore, senza dolore, non chiederà la buona morte» (in Da bambino avevo un sogno). Questo non riguarda solo la medicina palliativa: anche un ambulatorio o un centro trapianti ad elevata tecnologia possono essere costruiti e vissuti in modo da facilitare il prendere in cura non la malattia, ma quell’uomo sofferente e la sua famiglia, tanto da poter condividere anche le decisioni difficili.

Le fragilità del nostro tempo ci sfidano a trovare nuove forme di accompagnamento: è questa la prevenzione efficace al desiderio di morire, non una battaglia ideologica. Nell’hospice dove faccio la volontaria è accaduto che, appena scoperto che un ospite, già in terapia antidolorifica pesante, era un pittore, molti si sono mobilitati: nei corridoi sono stati appesi i suoi quadri, un volontario critico d’arte ha letto le sue parole sulla pittura e lui in carrozzina, commosso, ha tagliato il nastro e inaugurato la sua mostra davanti a parenti e pazienti. Alla fine conta soprattutto ciò che si ama, perché è lì che tocchiamo un lembo dell’eterno, il centuplo quaggiù che ci incolla, ci attira. Occorre il segno vivente che qualcuno ci ama per continuare a vivere fino all’ultimo prezioso respiro.

Con tutto il rispetto e il silenzio dovuto a chi soccombe ad un peso troppo gravoso, desiderare la morte, quando il dolore e gli altri sintomi sono adeguatamente controllati (con la medicina palliativa e, in extremis, anche con la sedazione palliativa) è sintomo di depressione non curata, di solitudine e della paura di dare fastidio. Serve una prevenzione, come per ogni suicidio, in un cammino di accompagnamento: se è vero che ogni libertà nasce come imprescindibile mossa di autodeterminazione, tutti sperimentiamo che una scelta che tenga conto di tutti i fattori può arrivare solo in un percorso in cui non si è soli e in cui la libertà si afferma veramente, portando al compimento della persona.

Oggi è importante capire di cosa si parla quando si parla di “fine vita”, senza lasciarsi confondere; per questo l’associazione Medicina e Persona ha preparato un libretto dal titolo Incurabile o inguaribile? Le parole del dolore e del fine vita e un breve quartino sintetico per i non tecnici, Dialogo tra un medico e una persona che vuole capire di che si tratta (disponibile sul sito). Tuttavia, la vera sfida per l’uomo e per la Chiesa è di rendere disponibili nuove – e antiche – forme di accompagnamento e un nuovo vicinato: persone che dedicano tempo negli hospices o a casa di chi è solo, persone trasformate dalla gratitudine, tanto da essere loro stesse annuncio di speranza. Come lo è stato Takashi Nagai a Nagasaki, in Giappone, anche dopo la bomba atomica. La sua certezza e la sua gioia hanno riempito di speranza le migliaia di visitatori che, incontrandolo nella mostra al Meeting, sono uscite con le lacrime agli occhi, per la scoperta che accompagnare può anche per tutti una ricchezza che trasforma la vita quotidiana.

È la diversità che si respira entrando nella Casa d’accoglienza “Véronique” per i parenti degli ammalati, inaugurata il 12 ottobre all’interno dell’Ospedale di Niguarda, a Milano. L’arcivescovo, monsignor Delpini è venuto a benedirla e ha scritto sul libretto dell’evento: «Come si fa a credere che Dio non si è dimenticato di chi è malato e solo? È facile: basta incontrare amici che in nome di Dio sono pronti a servire, per esempio gli amici di Véronique». L’eccezionalità di questa casa è che non nasce illudendosi di risolvere il problema degli alloggi, ma per permettere di essere accompagnati da amici e di sentirsi a casa propria nella difficoltà. Come è capitato a Ross, anima di Véronique, che l’ha fortemente voluta per la gratitudine di essere stata accompagnata a sua volta nel bisogno. Il resto accade. E ci ha già sorpresi.

Fonte: Paola Marenco | Clonline.org

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