«Il nome di donna fa stare in dubbio finché non si è vista l’opera ma farò vedere a Vostra Signoria che cosa sa fare una donna». Era il 7 agosto 1649 quando Artemisia Gentileschi scriveva così al suo committente, don Antonio Ruffo. E in effetti la sua maestria era tale da esser nota già in vita come la Pitturessa, per antonomasia. Sono sulle sue tracce da tempo, ma quest’anno mi ha raggiunto lei a Milano, con un quadro che il Museo Diocesano ospita fino al 26 gennaio per il sempre sorprendente appuntamento — chiamato «Un capolavoro per Milano» — che, a differenza delle solite abbuffate museali, prevede l’esposizione di una sola opera per il tempo natalizio: non è lo spettatore che la guarda e la consuma, ma l’opera che guarda lui e lo cambia. Dopo Antonello da Messina, Lorenzo Lotto, Albrecht Dürer, Caravaggio… quest’anno tocca all’Adorazione dei Magi (1636-7) di Artemisia, tela in prestito dalla cattedrale di Pozzuoli, che mi sembra la miglior guida per la festa di oggi, l’Epifania, parola che significa «manifestazione»: il Dio invisibile si mostra a tutti gli uomini che lo cercano, come ai sapienti venuti dalla Persia a Betlemme, che chiamiamo Magi.
Artemisia ebbe una vita tortuosa, e la sua arte fu spesso la riscrittura del suo dolore per trarne qualcosa di diverso dalla distruzione. Perde la madre a 12 anni e il padre Orazio, noto pittore romano, vuole che la primogenita si occupi della casa e dei fratelli; Artemisia però, a differenza dei maschi sui quali Orazio ripone le sue aspettative, ha talento artistico e determinazione. Nel maggio del 1611, neanche diciottenne, è già nota, ma il suo maestro di prospettiva, Agostino Tassi, detto lo Smargiasso, la seduce e la violenta. Tassi viene condannato, ma la ragazza esce dal processo con l’infamia di «puttana bugiarda». Il padre combina un matrimonio riparatore con un altro pittore e, nel 1612, Artemisia lascia Roma per Firenze, dove, recuperato il cognome del nonno (Lomi) che il padre aveva sostituito con un più aulico Gentileschi, può ricominciare da zero. Lì, talento e gran lavoro le aprono le porte – è la prima donna – dell’Accademia del Disegno fondata da Cosimo de’ Medici nel 1563. Dipinge soggetti femminili straordinari, tra cui spicca, in diverse tele, Giuditta decapita Oloferne, in cui la coraggiosa donna del racconto biblico è ritratta caravaggescamente nell’istante in cui taglia la gola all’uomo che vuole violentarla. In quella donna Artemisia nasconde e mostra se stessa: «A Firenze le chiederanno di dipingere eroine della storia antica e della storia sacra, ma sotto la sua mano non saranno eroine, saranno donne, saranno lei stessa», scrive Elisabetta Rasy nel bel libro dedicato a sei pittrici che sfidarono il loro tempo, Le disobbedienti, riconoscendo ad Artemisia «un nuovo sguardo sul corpo delle donne: le sue donne hanno l’anima in corpo». Anzi di più: il loro corpo si modella, non sempre drammaticamente, attorno alla loro anima.
L’ho constatato anche nell’Adorazione dei Magi, in cui Maria ha della pittrice i capelli ramati e la gioia conquistata dopo tanto affanno. Non c’è la rabbia delle sue eroine, ma la pace di una donna che può finalmente permettersi di essere se stessa. Come mi spiega la direttrice del Museo, Nadia Righi, dalla violenza in poi Artemisia non dipinse più Madonne: forse non voleva ritrarre una donna con cui non riusciva a identificarsi. A 43 anni, 25 anni dopo lo stupro, ci riesce creando un quadro in cui il dolore è diventato bellezza, la rabbia gioia, le ferite perdono, la sofferenza pace. Si identifica con Maria che realizza se stessa condividendo con altri il dono che ha ricevuto: con le mani velate porge Dio al primo dei re magi che, esterrefatto, si butta in ginocchio abbandonando ogni contegno regale. La bocca e gli occhi spalancati danno corpo a un’anima invasa dallo stupore: il Dio, che neanche la madre osa toccare direttamente, lui lo ha tra le mani. È finito il tempo della distanza e della paura di Dio ed è iniziato quello della vicinanza e dell’amicizia con Lui. Artemisia riesce a farci vivere l’epifania perché vive la sua, mostrando che la bellezza di ciascuno di noi si realizza nella piena maturazione della nostra vocazione: questo è il divino nell’umano. L’Epifania ci ricorda che una vita si può dire bella solo se migliora il mondo con la propria presenza. Non è vero che l’Epifania tutte le feste porta via: la festa è appena cominciata. E sta nel far fiorire, tutti i giorni, i nostri doni mettendoli al servizio degli altri, anche se questo richiede studio, lotta, impegno, generosità e tanti fallimenti, come fu per Artemisia, che nella stessa lettera citata in apertura scriveva: «lei vedrà nei fatti questo talento che mi ha dato Iddio». Era sicura di sé perché sapeva di avere una missione da compiere, benché avesse tutti gli alibi per rinunciare. E noi?
Fonte: Corriere.it