La città come modello di vita: un ruolo rivendicato dai Comuni e che ha bisogno di una coscienza collettiva
“P
er il cristiano la città non è soltanto il frutto dell’evoluzione storica dell’uomo, ma il modello di vita previsto da Dio fin dall’eternità. Un modello di vita che già comincia a realizzarsi nel corso della storia, nel tempo del già e non ancora”. L’ambizioso disegno è quello di Giorgio La Pira, che fu sindaco di Firenze e cattolico fervente. Disegno che sta nel cuore di ogni cristiano che si impegna nella vita pubblica. Forse non per caso – come ricordava un anno fa Marco Vitale, economista d’impresa, cattolico impegnato, anche assessore a Milano nel breve periodo successivo al trauma di Tangentopoli – “l’Italia ha avuto due grandi cantori del ruolo delle città e del Comune nel processo di sviluppo e incivilimento del Paese: il primo è Luigi Sturzo, siciliano e cattolico, il secondo è Carlo Cattaneo, milanese e pensatore laico” ma fortemente radicato lui stesso nella cultura cattolica del suo tempo.
“Questi grandi cantori italiani dell’importanza della città e del Comune anticipano la visione attualmente dominante nell’ambito della migliore dottrina di economia urbana. Oggi come non mai – scrive ancora Vitale – le singole città sono infatti considerate centro e motore di sviluppo. Ciò è riconosciuto dai più recenti studi internazionali di economia e sociologia urbana, come quello di Edward Glaeser (Il trionfo delle città”, 2010), o quello di Charles Landry (“La città creativa”, 2000), oltre a tutta l’opera di Saskia Sassen”.
D’altronde anche il teorico della globalizzazione e della società liquida, Zygmunt Bauman, lo aveva scritto prima che il XXI secolo fosse indicato come il “secolo delle città”: “La città è contenitore di ansie e aspettative generate dalla globalizzazione ma al tempo stesso è il campo su cui affrontarle, nel concreto e nel reale”. Un destino, quello delle città, che è ormai indicato come condizione per uno sviluppo sostenibile dell’intero pianeta. Uno dei 17 obiettivi (per essere precisi il n.11) indicati nell’Agenda di Sviluppo 2030 dall’Assemblea delle Nazioni Unite riguarda proprio la città e il suo sviluppo urbano “sostenibile, inclusivo e resiliente”.
Senza indulgere nelle patologie del municipalismo, è tuttavia difficile non pensare alla dimensione del Comune, quando parliamo della centralità del ruolo delle città in Italia. D’altronde “solo al tempo dei liberi Comuni italiani, anseatici e fiamminghi, le città avevano un ruolo di agenti di innovazione pari a quello che stanno assumendo nell’attuale momento storico” (Pierciro Galeone, “Città e nuove generazioni, il futuro dell’Europa”). Questo grande richiamo internazionale alla “missione” delle città per assicurare uno sviluppo “sostenibile e inclusivo” al nostro mondo, ha un’eco civica nelle parole del Capo dello Stato, che ha definito i Comuni “radici e sensori della Repubblica”.
Dall’affermazione della città come motore e presidio dell’innovazione e dello sviluppo, alla preservazione dell’autonomia locale e delle identità che ad essa sono sottese, il passo è breve. Di più: è fisiologico.
L’affermazione del presidente Mattarella si pone nel solco tracciato dall’articolo 5 della nostra Costituzione, secondo il quale “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”. Eppure decentramento e autonomia – che sono la condizione per dare alle città italiane quel ruolo di propulsori di crescita e di garanti della protezione sociale – sono stati in questi ultimi anni disattesi e vilipesi. Prima da quella contrazione di risorse economiche e finanziarie che hanno fatto mancare 12 miliardi di euro dai bilanci dei Comuni. E poi da una normativa molto più che rigorosa, che si è manifestata in una tendenza alla iper regolazione delle procedure di spesa.
Le nuove regole di bilancio – con l’obbligo di pareggio definito nella Carta fondamentale e con il nuovo ordinamento contabile dei Comuni – sono diventate di rango costituzionale, determinando di fatto una nuova gerarchia, in senso neo centralista, tra i livelli di governo. Ne è derivata una modifica della nostra costituzione materiale che ha provocato una torsione di principi, come quello della leale collaborazione che da sempre hanno rappresentato il “lubrificante” dei rapporti tra i livelli di governo. In questo quadro, inevitabilmente, si è prodotta una sempre maggior giurisdizionalizzazione delle attività amministrative dei Comuni. Tra interventi della Corte dei Conti, sentenze della Corte Costituzionale e pronunce della Corte di Giustizia UE (occhio alle conseguenze di quella recentissima sui ritardi di pagamenti a carico dell’Italia!) il sindaco si ritrova a operare nei panni di un “capo ufficio”, privo di una reale possibilità di promuovere politiche pubbliche in condizione di ragionevole autonomia ma chiamato ad adottare azioni imposte da norme di rango superiore.
È l’eclissi della democrazia rappresentativa nella dimensione locale. Non passerà molto che qualcuno invocherà un algoritmo al posto del Sindaco. Il paradosso è qui: nel momento storico che prevede una crescente urbanizzazione e individua nella città il motore dell’inclusione sociale, a livello locale assistiamo alla paradossale sottrazione di spazi alla politica e alle sue scelte. Ancora più paradossale è assistere – almeno da due anni a questa parte – all’auspicata inversione di tendenza legislativa, che libera nuove risorse per gli investimenti pubblici a livello locale, che si accompagna tuttavia a un implacabile riduzione degli spazi di manovra di spesa corrente.
E’ in fondo un problema di democrazia. La riduzione delle spese di parte corrente coincide con una inevitabile contrazione dei servizi alla comunità, ai cittadini, che con la spesa corrente sono alimentati. I diritti di cittadinanza – che coincidono con i servizi essenziali per il cittadino – sono garantiti con le spese correnti. Diciamolo con un pizzico di rozzezza solo apparente: per assicurare il ruolo richiesto alle città – e ai Comuni “radici e sensori della Repubblica” per ripetere le parole di Mattarella – ci vogliono risorse, oltre che idee. È un fatto di scelte. Se nel bilancio dello Stato è stato possibile stanziare 8-9 miliardi per il reddito di cittadinanza – scelta opinabile, ma squisitamente politica – alla politica di Governo spetta decidere di trovare almeno un miliardo per i Comuni e le comunità. Negare queste risorse vuol dire negare l’articolo 5 della Costituzione, sottrarsi all’autorevole richiamo del Capo dello Stato e smentire gli obiettivi internazionali di sostenibilità che vedono nelle città e nella loro stessa vita, la condizione per assicurare uno sviluppo che sia sostenibile. Non solo in senso ambientale ma anche in quello antropologico.
Fonte: Guido LOCALE | InTerris.it