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Se la Cassazione riconosce il diritto a cambiare persona

Dopo il diritto a cambiare sesso (come se questo dipendesse dalla psiche e non dai cromosomi), la Cassazione ha stabilito quello a cancellare la propria vecchia identità e a diventare una nuova persona. A questo punto non c’è più ragione per negare a chiunque la possibilità di eliminare la propria persona giuridica per inventarsene una nuova, con tutte le conseguenza annesse.

 

«Cosa c’è in un nome? Ciò che chiamiamo rosa anche con un altro nome conserva sempre il suo profumo». Celebri parole di Giulietta in Romeo e Giulietta di Shakespeare. È vero quanto afferma l’adolescente veronese? A volte sì. Uno stesso oggetto può essere indicato con parole differenti, ma tali lemmi, posto che il loro significato convenzionale sia il medesimo, farebbero riferimento sempre allo stesso ente: “tavolo”, “table”, “mesa”. Cambia il termine a seconda della zona geografica, ma l’essenza di ciò che indica è sempre la medesima. Ma questo non sempre capita: un essere umano maschile deve essere indicato da un termine maschile. Ad un neonato maschio possiamo dare il nome di “Mario”, “Stefano”, “Claudio”, ma non di “Maria”, “Stefania”, “Claudia” dal momento che questi ultimi nomi tradirebbero l’identità di quel bambino, non corrisponderebbero alla realtà, che in questo caso è una realtà sessuata maschile.

La teoria del gender sarebbe d’accordo con questa riflessione? Sì, ma con l’importante distinguo che l’identità sessuale, per gli ideologi arcobaleno, non fa riferimento in prima istanza alla corporeità, bensì alla psicologia. In breve, l’essere maschio o femmina non è deciso primariamente dai cromosomi X e Y, bensì dall’intelletto della persona. Non è la psiche che deve riconoscere un dato di realtà sessuata e ad esso conformarsi, ma è la psiche che crea la realtà sessuata, al di là del dato empirico, e quest’ultimo deve conformarsi al percepito della persona.

Da ciò discende che il corpo sessuato è aspetto accessorio rispetto all’identità sessuale psicologica, non caratterizzante, non essenziale, né più né meno dall’essere grassi o magri, alti o bassi: Mario, grasso o magro che sia, rimane sempre lui, rimane sempre Mario. Quella persona lì, anche se maschio o femmina, rimane sempre quella persona lì (per rispondere a queste obiezioni si può leggere qui). Dunque, secondo questa teoria, un corpo maschile può essere indicato da un nome femminile, se la femminilità rispecchia l’identità sessuale decisa così dalla persona stessa.

Questo ragionamento è stato fatto proprio anche dal nostro ordinamento giuridico ormai da tempo con la normativa sul “cambiamento di sesso” (la disciplina normativa sulla rettificazione sessuale trova una sua legittimità morale in casi di erronea assegnazione dell’appartenenza sessuale da parte del medico al momento della nascita). Però, fino a ieri, se il nato Mario voleva “diventare” donna non poteva che chiamarsi Maria. Infatti il nostro ordinamento permetteva sì il cambiamento del nome, ma in una sola variante: la femminilizzazione del nome maschile o la mascolinizzazione di quello femminile (laddove possibile). Ma di fronte a questo gravissimo vulnus alla libertà onomastica delle persone transessuali è scesa in campo la Cassazione ed ha permesso al già Alessandro, persona transessuale che ha fatto ricorso in tribunale, di chiamarsi non Alessandra, come in punta di diritto avrebbe dovuto chiamarsi e come aveva stabilito la Corte di Appello di Torino, bensì Alexandra, secondo i desiderata del lui/lei ricorrente. La Cassazione, a tale proposito, appunta che il nome è “uno dei diritti inviolabili della persona”, un “diritto insopprimibile”, e deve “essere assicurato anche un diritto all’oblio, inteso quale diritto ad una netta cesura con la precedente identità”. Quest’ultima osservazione è particolarmente rilevante.

La Cassazione ha rispecchiato fedelmente le teorie più estreme del movimento LGBT. Infatti la teoria gender, in merito alla identità sessuale oggi chiamata “identità di genere”, predica di fondo due tesi. La prima: un soggetto, ad esempio di sesso maschile, ad un certo punto si accorge di essere vissuto da sempre in un corpo sbagliato e quindi decide di “cambiare” sesso. La sua identità è sempre stata femminile, ma imprigionata in un corpo maschile. Seconda tesi: un soggetto ha vissuto in piena armonia la sua identità psicologica e quella fisica sino ad un certo giorno. Carlo, ad esempio, si è sentito profondamente maschio sino ai 20 anni, ma poi si è percepito femmina. Dunque fino ai 20 anni aveva una sua identità sessuale, ma poi l’ha cambiata. Se nella prima tesi l’identità sessuale permaneva uguale sin dalla nascita e dunque era unica, nella seconda tesi l’identità sessuale è cambiata e dunque non era unica.

Ora la Cassazione ci dice che esiste il «diritto ad una netta cesura con la precedente identità». Questa frase si sposa con entrambe le tesi prima enunciate. Esisterebbe un diritto a vedere cancellata una identità anagrafica errata, stante un’unica identità sessuale presente sin da quando all’anagrafe fu registrato un nome non corrispondente a tale identità sessuale, e a vedere cancellata una identità anagrafica che era corretta fino ad un certo momento perché corrispondente ad una relativa identità sessuale, ma dopo quel momento, essendo cambiata la identità sessuale, non lo è più.

Ma forse in questa sentenza c’è ancora dell’altro. Quando la Cassazione si riferisce all’identità, sic et simpliciter, probabilmente si riferisce non tanto all’identità anagrafica, ma, in senso filosofico, alla identità personale. Dunque esisterebbe un diritto a diventare un’altra persona e perciò, dal punto di vista giuridico, un’altra persona fisica. In sottotraccia è questa una suggestione presente nella teoria gender: il cambio di identità sessuale comporta un cambio essenziale dell’intera persona. Non si cambia solo il sesso, ma tutta la persona nella sua interezza. Proprio come se Tizio diventasse Caio.

Ora, se la nostra interpretazione fosse corretta, ciò vorrebbe dire che per la Cassazione esiste la possibilità giuridica di diventare altro da sé, ossia di essere stata una certa persona agli occhi dello Stato fino ad una data precisa e dopo quella data di essere diventata un’altra persona. Dunque non si certifica solo il diritto di cambiare sesso, così come si cambia stato civile da celibe a coniugato, ma di cambiare “persona”. Il nuovo nome “Alexandra” quindi non indicherebbe più la medesima persona, che fino ad un certo giorno si chiamava Alessandro, bensì indicherebbe la morte filosofica-giuridica di Alessandro e la nascita di un’altra persona di nome Alexandra. Ecco perché la Cassazione ha deciso di superare il vincolo della mera declinazione al maschile o al femminile del nome originario anagrafico per aprire alla possibilità di scegliersi il nome che si vuole: se la persona è totalmente nuova, anche il nome deve esserlo. La posizione dei giudici, da una parte, non trova direttamente nessun aggancio normativo valido ed è dunque giuridicamente ingiustificata, su altro fronte però, indirettamente, discende logicamente dalla disciplina normativa sul “cambiamento” di sesso, comprovando che la volontà (impossibile da realizzare) di cambiare sesso comporta necessariamente la volontà (altrettanto impossibile da realizzare) di cambiare persona. Il sesso è aspetto identitario della persona, non mero accessorio.

Se però avessero ragione gli ermellini, non si vedrebbe il motivo per cui questo diritto alla cancellazione della propria identità personale possa venire riconosciuto solo alle persone transessuali e non a tutti noi. Anche Mario, magari, vorrebbe diventare un’altra persona e farsi chiamare Paolo, senza bisogno di “cambiare” sesso. Inoltre, se c’è il diritto a non essere più chi siamo e di inventarci un nuovo “Io”, la costruzione di questa nuova personalità dovrebbe essere libera, liberissima. E dunque, non solo Mario avrebbe il diritto di diventare un’altra persona, ma vanterebbe il diritto di disegnarsi come più piace a lui, di dotare questo nuovo “lui” di quelle caratteristiche a lui più gradite e quindi avrebbe il diritto di diventare ad esempio Napoleone, con tutte le prerogative che questo nome comporta. Se la persona è radicalmente nuova, ovviamente è tutta da inventare. E lo Stato avrebbe il dovere di tutelare questo diritto proprio perché – e l’aggettivo è assai azzeccato – diritto personalissimo.

Il tutto corrisponde alla visione giuspositivista estrema che intende il diritto positivo come onnipotente, in perfetta aderenza alla relazione al Titolo preliminare del Code Civil presentata da Jean Portalis nella seduta del Corpus Législatifs del 4 ventoso (il 23 febbraio 1803): «Il potere legislativo è onnipotenza umana. La legge stabilisce, cambia, modifica, perfeziona; distrugge ciò che è, crea ciò che non è ancora».

Fonte: Tommaso SCANDROGLIO | LaNuovaBQ.it

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