S
ul fronte della difesa della vita “dal concepimento alla morte naturale” le buone notizie sono una rarità e, dunque, corre l’obbligo di diffonderle il più possibile, per contrastare la pericolosa deriva della delusione e del “ritirarsi a vita privata” con l’alibi menzognero “già non cambia nulla”. “Gutta cavat lapidem” e a noi viene richiesto di fare ogni giorno il nostro servizio al bene e alla verità. Ci tocca seminare, con la certezza morale che altri raccoglieranno. Dunque, la bella notizia è che in Spagna un tribunale commerciale (città di Gijan) ha riconosciuto ufficialmente che l’atto abortivo deliberatamente scelto non è come bere un bicchier d’acqua, ma ha delle conseguenze a volte pesantissime sulla salute psicofisica della donna che ha fatto questa scelta.
Non è per nulla una novità, considerato che sono più di trent’anni – dal lontano 1985 quando per la prima volta il New York Times lanciò l’allarme sulle conseguenze dell’aborto – che se ne parla, ma è la prima volta che, con provvedimento amministrativo pubblico, si condanna un’Associazione che riunisce 28 cliniche accreditate per l’IVG (Associazione ACAI) che sul proprio sito web pubblicizza l’aborto come fosse una passeggiata, senza conseguenze. Ormai in ogni parte del mondo la scienza – quella vera, non asservita al politicamente corretto – è concorde nel dichiarare che l’aborto porta con sé ricadute negative sull’equilibrio psichico della donna, sia che lo subisca involontariamente (aborto spontaneo) sia che lo provochi volontariamente. In quest’ultimo caso, con l’aggravante del “senso di colpa”.
Lo stesso DSM III (1987) – che certamente non può essere tacciato di simpatie cattoliche – pone la sindrome clinica legata al post-aborto nel novero del PTSD (Post Traumatic Stress Disorder). Ma le donne che stanno per scegliere lo sanno? Nei consultori del nostro Paese viene presentato e fatto firmare un “consenso informato” correttamente ed esaurientemente espresso, come la pratica medica richiede, anzi, impone? E, alla luce di questo documento, viene garantita alla donna la settimana di attesa per la personale valutazione – come vuole la legge 194 – prima della scelta definitiva? Purtroppo la risposta è NO: non esiste un modulo di consenso, non si informa mai sulla sindrome post-abortiva ed il ricorso frequentissimo al regime d’urgenza fa saltare ogni tentativo di seria valutazione della scelta.
Per non parlare dell’articolo 5 della 194, che garantirebbe di “rimuovere le cause che determinano la scelta di interrompere la gravidanza”, mai applicato dallo Stato dal 1978 ad oggi. Ho la brutta sensazione che la medesima strategia si nasconda dietro la legittimazione del suicidio assistito: da una parte la solenne dichiarazione di porre in primo piano le cure palliative e la terapia del dolore (legge 38/10), dall’altra il vero piatto forte: sì al suicidio. Nel 2019, in Italia, si è registrato 1 aborto ogni 5 nati, al netto delle vittime dell’aborto chimico con le varie pillole post-coitali (360.000 confezioni vendute!): una tragica condotta per un Paese in pieno suicidio demografico!
Vorrei concludere smantellando un’altra bugia che la propaganda pro-aborto mette costantemente in giro: i medici obbiettori sono tanti, troppi (sono circa il 70% dei medici) e non rendono usufruibile il diritto di scelta della donna che vuole fare IVG. FALSO! Dati ufficiali, inconfutabili, alla mano, dimostrano che ogni ginecologo non obiettore esegue in media 1,6 IVG alla settimana (in alcune ASL del Lazio si arriva a 3,2 alla settimana). Purtroppo – questo è il mio personale pensiero – non c’è alcuna “carenza di servizio”, mentre c’è una enorme carenza di assunzione di responsabilità da parte dello Stato che dovrebbe impegnare ogni risorsa per limitare al massimo la soppressione di bimbi in utero. Vale la domanda di sempre: qualcuno mi dica “chi ci perde se nasce un bimbo in più?”.
Fonte: Massimo GANDOLFINI | InTerris.it