Ormai quindici anni fa Enrico Mazza mi raccontò a lezione edificanti apologhi medievali sul potere terapeutico dell’Eucaristia: ad esempio il cavaliere che si vedeva cavare un occhio in battaglia si rammentava di essere accorso quel dì, al richiamo della “squilla fedel”, a contemplare l’elevazione del Corpo del Signore, e allora pieno di fiducia raccattava da terra il bulbo oculare, acciaccato e pesto, e se lo rimetteva nell’orbita vuota. «Quest’occhio stamane – argomentava frattanto – ha visto il vero corpo del Signore, e quindi non è questo il giorno in cui potrà essermi cavato». Il ragionamento aveva una sua logica, va detto, e ovviamente il nervo ottico si ricomponeva, i muscoli si ricollegavano e l’organo tornava a funzionare perfettamente.
Solo uno sciocco potrebbe usare un simile apologo per sostenere che nel medioevo gli uomini fossero tutti istupiditi (dalla fede cattolica, manco a dirlo): Mazza ci insegnava invece a usarne la tramandata memoria per considerare i livelli popolari del dibattito eucaristico, che almeno a partire dal IX secolo occupava le cattedre accademiche e i pensieri dei sovrani. La questione era – e volevano ben capirla anche i re! – se e in che modo si potesse comprendere che quello consacrato durante la messa era il vero corpo di Cristo. È questa l’epoca, non a caso, in cui nasce il testo dell’Ave Verum, al quale Mozart avrebbe dato vita imperitura con la propria musica.
Nel sottofondo della psicosi da coronavirus – alimentata non senza qualche comprensibilità da una classe politica evidentemente sprovvista dei mezzi per arginare il contagio – si ripropongono in questi giorni argomentazioni simili a quelle del nobile cavaliere medievale: «Se l’Eucaristia è Gesù vivo e vero, è segno di poca fede ritenere che per suo mezzo possano propagarsi malattie e infezioni». Questa, grossomodo, l’argomentazione – che suona ricca di santo zelo e di fervore.
In contrario bisogna però osservare due obiezioni, la prima di ordine cristologico, la seconda di ordine sacramentale (i meno profani coglieranno subito la «non mediocrem analogiam» tra le due):
- Anzitutto l’unione ipostatica della seconda persona della Trinità con la natura umana nata da Maria non ha mai immunizzato la natura assunta da malattie e infermità: in parole povere, non c’è motivo di escludere che Gesù abbia contratto malattie e che sia stato soggetto a normali processi di guarigione e convalescenza.
- Dopo la Risurrezione però – si obietterà – l’umanità di Cristo sussiste in una forma glorificata e assolutamente esente da qualsivoglia corruzione. Se questo è verissimo, non lo è meno che i segni sacramentali non portano sotto i nostri sensi il loro contenuto essenziale – quel che tomisticamente chiamiamo “la res” – bensì degli elementi immutati in tutto quanto li concerne fisicamente – “il sacramentum”.
L’oggetto della fede è precisamente questo: sotto i segni sacramentali – ossia “sub-stans” – si trova un’essenza che non è più quella del pane e del vino, bensì quella del corpo di Cristo. Dal punto di vista metafisico, però, l’essenza ha l’inconveniente di essere concepibile razionalmente, ma in nessun modo esperibile: sul piano teoretico, anzi, questo non è affatto un inconveniente – mentre lo è l’obiezione che se le sostanze del pane e del vino cessano totalmente di sussistere resta difficile da spiegare come possano resistere le loro specie. Qualcuno tentò allora di aggirare il problema ammettendo la compresenza di due sostanze nell’ente sacramentale (tra questi anche Lutero), ma quello di “sostanza” è concetto rigorosamente semplice: pensarla in composto è sempre stato problematico (e poi perché solo una delle due sostanze dovrebbe tracimare in delle specie sensibili? – come si vede le aporie non mancano).
Insomma, quando il Concilio Tridentino scelse di adottare la categoria di “transustanziazione” non ne fece un assunto dogmatico in sé («l’atto del credere – abbiamo imparato da Tommaso – non ha per termine la categoria ma il concetto ivi contenuto»), ma operò questa scelta nonostante le difficoltà proprio perché il Popolo di Dio avesse uno strumento per superare, certo gradualmente, concezioni più o meno larvatamente fisicistiche quali quella espressa dal cavaliere dell’aneddoto (e ai nostri giorni dagli ardenti arditi della comunione/farmaco universale). Provo a sintetizzare con le parole autorevoli del padre Thomas Michelet:
Il sacramento è la grazia nella forma sensibile di un segno. Fintanto che il segno resta, cioè finché non è interamente corrotto, esso resta segno sacramentale. Un’ostia avvelenata può dunque essere al contempo una vera ostia consacrata – procurare all’anima la grazia – e un’ostia avvelenata capace di uccidere il corpo. La cosa è comprovata dall’esperienza. La fede non insegna che la materia del segno sfugga alle leggi fisiche: semplicemente che la grazia usa codesta materia per comunicarsi in maniera sensibile.
Del resto sappiamo bene, a monte di tutto ciò, che «Dio non lega a filo doppio la grazia ai sacramenti» (ce l’ha insegnato sempre san Tommaso), ossia che egli ha disposto la Chiesa e i sacramenti per la propagazione della salvezza, ma che è sempre liberissimo e capacissimo di derogare a tale disposizione: donde il prudente giudizio pastorale di vescovi che (oggi come ieri) non hanno temuto di limitare o sospendere i momenti di sinassi liturgica per arginare il rischio epidemico.
Insomma, il coronavirus può passare per le ostie? Sembrerebbe di dover rispondere negativamente, allo stadio attuale delle conoscenze, in quanto il virus non sembra vivere nei cibi: del resto l’atto del comunicarsi è facilmente esposto alla diffusione di microbi per via di occhi-naso-bocca, e dunque neppure sarebbe necessario un decreto dell’Ordinario per evitare lo scambio del segno di pace, mentre giustamente si preferirà dare la comunione in mano anziché in bocca. Dove poi il rischio di contagio rimanesse comunque troppo elevato, prudenza e carità pastorali potrebbero legittimamente suggerire all’Ordinario di limitare ulteriormente le occasioni di contagio, sospendendo ad certum vel incertum tempus le missæ cum populo.