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Coronavirus. “Io, rianimatore in prima linea: ciò che ho visto, ciò che rimarrà”

Noi e i nostri genitori la guerra non l’abbiamo vista. O meglio non l’avevamo vista ancora.

Ho sempre pensato di essere un cavaliere che sfida a duello rusticano la morte. Restituire l’anima a chi l’ha perduta, mi spiegavano da studente fosse il significato di Rianimazione. Macché, fine del film di 30 anni di professione. Fine del delirio di onniscienza e onnipotenza. Il duello non è più rusticano, non è più uno a uno.

Il nemico adesso ti accerchia, sembra come in quei film dove per ognuno che fronteggi dieci ne spuntano da tutte le parti. Puoi solo contenere o abbandonare, e tu, colpito mille volte, non sai neanche perché non muori. Forse per vedere, forse per testimoniare un’umanità che si affanna, che si stringe, che lotta, che sviene, che piange e poi riparte. Forse per vedere la paura di chi curi e quegli occhi che non dimenticherai più, incredibilmente dignitosi come se sapessero che stai facendo il massimo.

Non so quando finirà ma so che finirà.

Quando questo accadrà chi si è ammalato capirà tante cose e chi ha curato sarà un medico o un infermiere migliore. Ma il vero valore sarà ciò che tutto il resto dell’umanità che per sua fortuna ne è rimasta fuori dovrà cogliere: il valore della solidarietà, dell’unione, dell’inutilità di moltissime cose e della grandezza di poche.

 Responsabile Anestesia e Rianimazione  – Humanitas Gavazzeni -Bergamo

Fonte: Giovanni ALBANO | Avvenire.it

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