Qualche giorno fa ero andato a spulciare le opere di sant’Agostino per togliermi una curiosità: volevo vedere se e come avesse parlato di epidemie (locali, ché nel corso della sua vita non se ne registrarono di globali), visto che non mi era mai capitato di studiare l’argomento. Fui sorpreso, ma non troppo, nel constatare come nella sua opera le parole virus, morbus, contagio e pestis non si riferiscano (quasi) mai a fenomeni clinici, ma (praticamente) sempre a eresie, cioè ad aberrazioni dottrinali (e qualche volta anche a deviazioni disciplinari).
Mondanità, una peste sottile…
Quando si dice “guardarsi come la peste da qualcosa”! E se nei secoli precedenti i cristiani si guardavano come la peste dal paganesimo, e soprattutto dalla sua componente idolatrica (le due cose di per sé non coincidono stricto sensu), Agostino nacque nel 354, più di quarant’anni dopo l’Editto di Milano, e fu battezzato nel 387, cioè sette anni dopo l’Editto di Tessalonica: le persecuzioni dell’impero ai danni dei cristiani furono per lui materia di studio, non di esperienza diretta (anzi, quando fu consacrato vescovo si ritrovò ipso iure anche pubblico ufficiale dell’impero con funzioni di magistrato, abilitato a utilizzare il cursus publicus per gli spostamenti!). L’Impero conservava sempre le sue insidie, all’epoca, ma Agostino era uno dei pochissimi a scorgerle ancora, mentre i suoi confratelli e colleghi coglievano perlopiù la grande opportunità storica che si dava alla Chiesa (quella cioè di edificare una societas christiana).
Un’epidemia tuttavia si dava ancora, anzi molte: quella delle eresie, in primis (e già con le eresie si aveva l’imbarazzo della scelta), ma poi c’era soprattutto quella della secolarizzazione, che invase tutte le comunità cristiane con la fine delle persecuzioni. Essere cristiani non era più sconveniente, anzi cominciava a convenire anche a fini di carriera, e se poi nella vita quotidiana non si viveva coerentemente con la professione di fede poco importava, tanto più o meno si campava tutti allo stesso modo. Questo andazzo era intollerabile per molti che, per sfuggire tale peste, diedero vita alle prime esperienze monastiche cristiane: Antonio il Grande, la cui vita fu raccontata da Atanasio, e poi Pacomio e moltissimi altri. La secolarizzazione però è inesorabile e non risparmia neppure i monasteri: proprio per la loro fama di santità, i monaci venivano fin da subito chiamati a ricoprire importanti ruoli pastorali (venivano fatti vescovi o addirittura patriarchi), e questo fece sì che molti entrassero in monastero per ambizioni di carriera… I più severi e austeri fra i monaci reagirono cercando forme sempre più forti di penitenza, forme talvolta così estreme che la Chiesa restò per qualche tempo dubbiosa su come giudicarle: c’era chi si flagellava, chi digiunava lungamente, chi si rintanava in eremi inaccessibili… e addirittura chi si rifugiava su colonne!
Vita di Simeone (vista dall’alto)
Fu questa l’idea che ebbe ad esempio Simeone, che nacque quando Agostino – da tutt’altra parte del mondo – aveva trentacinque anni, faceva vita monastica cenobitica da poco e stava per essere ordinato prete (l’anno dopo): figlio di Marta una donna piissima (santa anch’ella), entrò in monastero che era ancora adolescente. Tanto era austero nelle sue penitenze (fu uno dei primi a fabbricarsi un cilicio), che imbarazzò i monaci – i quali non erano cattivi né indolenti (mangiavano una volta ogni tre giorni!), bensì votati all’ἐσυχία, cioè alla tranquillità dell’anima – e fu allontanato dal monastero.
Simeone intensificò allora la sua penitenza, attraversando per la prima volta la quaresima in un unico grande digiuno (lo trovarono a Pasqua svenuto e a un passo dalla morte: lo rianimarono e gli diedero la comunione). Andò poi a ripararsi sul monte oggi noto come lo Sheik Barakat, e siccome la sua fama di santità gli attraeva ingenti folle di persone cercò posti dove potersene stare in pace (e al sicuro dal contagio!) più a lungo possibile: gli venne allora l’idea di salire in cima a un grosso pilastro, alto circa quattro metri. Le icone lo raffigurano semplicemente seduto in cima alla colonna, come fosse egli stesso un suo capitello: le fonti dell’epoca ci dicono invece che sulla cima della struttura veniva disposta una piattaforma di piccolissima area, comunque pochi metri quadrati.
Simeone scese più volte dalla colonna, ma spesso solo per salire su una colonna più alta, dalla quale tuttavia ogni pomeriggio accettava di incontrare le persone che venivano a consultarlo: le donne no. Lì il contagio mondano poteva essere irresistibile anche per un uomo la cui sensualità poteva presumersi domata da decenni di digiuni ed esposizione agli agenti atmosferici: «Se saremo degni – avrebbe detto alla madre (sic!) che aveva chiesto di vederlo (e che avrebbe accolto la risposta) – ci vedremo nell’altra vita».
Attorno alla colonna si raccolse un drappello di devoti che si dedicò ad assistere lo stilita, il quale non per il suo starsene appollaiato a 15 metri d’altezza (tanto misurava l’ultima colonna della sua vita) era distante dalle vicende degli uomini: gli Augusti Teodosio II e Leone I sarebbero stati molto attenti alle sue parole e avrebbero vegliato sulla sua salute; la vista spirituale di Simeone, dall’altezza della colonna, sarebbe giunta fino a Lutetia, l’antica Parigi, dove nel frattempo la giovane Genoveffa (futura santa patrona della città, invocata specialmente in occasione di pestilenze e di colera) diventava una torre d’avorio edificata coi mattoni della verginità e con la malta dell’umiltà – un bel giorno la santa parigina si sarebbe visti recapitare gli omaggi di Simeone da certi mercanti che, passando per la Siria e avendo sentito del santone, erano passati a vedere il fenomeno (ma questa notizia è dubbia, visto che la ritroviamo soltanto nella Vita di Genoveffa e non nelle fonti su Simeone: quel che però essa attesta è che nel VI secolo a Parigi la fama di Simeone era giunta in grado significativo).
Simeone morì nel 459, inaugurando (come ogni influencer che si rispetti) uno stile di vita ecclesiale per sfuggire il contagio della mondanità financo nelle forme più lievi e “veniali”: non solo “Simeone il giovane”, che del proto-stilita avrebbe portato anche il nome, ma moltissimi altri seguirono il suo stile cristiano estremo, per un secolo abbondante.
L’agiografia che Teodoreto gli dedicò quand’era ancora vivente
Di lui scrisse, ottimo fra gli altri, l’ultimo grande teologo della c.d. “Scuola di Antiochia”, Teodoreto di Cirro, che a ridosso del Concilio di Calcedonia (dunque quando lo Stilita era ancora vivente!) inserì la sua vita tra le trenta che compongono la sua Historia religiosa.
È secondo la natura – premetteva Teodoreto al suo medaglione sullo Stilita – che gli uomini giudicano abitualmente i fatti di cui si parla loro: quando si riporta loro qualcosa che oltrepassa i limiti della natura, le persone che non sono iniziate ai divini | misteri ritengono mendace il racconto.
Teodoreto ci riporta il sogno profetico che Simeone, ancora giovanissimo, fece quando cercava la sua vocazione e si recava in chiesa «per supplicare colui che venne a salvare tutti gli uomini di guidarlo a conseguire infallibilmente la pietà» (ivi 3, p. 162):
Mi sembrava – raccontò – di scavare delle fondamenta. Poi sentivo qualcuno che stava lì fuori e che mi diceva che bisognava scendere più in profondità. Scavai dunque più a fondo, come mi veniva comandato, e di nuovo pensai di sostare un poco. Ma di nuovo mi ordinò di continuare a scavare | e di non badare mai alla fatica. Dopo avermi rinnovato quest’ordine ancora tre e quattro volte, alla fine mi disse che la profondità delle fondamenta era sufficiente e che potevo costruire tranquillamente, perché ora ogni fatica sarebbe cessata e la costruzione avrebbe avuto luogo senza pena.
Ivi, 3, pp. 162.164
Teodoreto ricorda che il pezzo forte di disinfezione dal contagio mondano – diciamo la “quarantena” – di Simeone era appunto la Quaresima: se da giovane imparò a farla senza mangiare e senza bere nulla, a costo di farsi trovare svenuto (e i monaci lo ammonivano: «Il suicidio non è pietà!»), quando fu più adulto aggiunse alla totale astinenza dai cibi lo stare continuamente in piedi a salmodiare (cf. ivi 9-10, pp. 176.178).
Se la Vita di Genoveffa ci attesta il culto parigino di Simeone all’alba del VI secolo, Teodoreto stesso ci riporta che non solo tra gli Ispani, tra i Bretoni e tra i Galli lo Stilita aveva moltissimi followers, ma ancora più successo riscuoteva nella penisola italica:
Dell’Italia è superfluo stare anche solo a parlare: nell’immensa Roma – mi dicono – è diventato così celebre che all’ingresso dei negozi si trovano delle immaginette su delle colonnine per assicurare la pace agli abitanti e la sicurezza agli avventori.
Ivi, 11, p. 182
Insomma a Roma fioriva già il mercatino delle immaginette: certo questa storia della colonna faceva colore, e anche parecchio. Se all’autorità ecclesiastica il dubbio sulla purezza della vocazione di Simeone veniva fugato non appena l’eremita obbediva alla voce di chi da parte del vescovo gli ordinava di scendere, nondimeno le scenette che si svolgevano attorno alla colonna avevano dello spassoso, soprattutto per i pagani (i quali generalmente se la facevano sotto dalle risate, ma di tanto in tanto restavano fatalmente incantati dal prodigio di Simeone).
Gli Ismaeliti, ad esempio, li ho visti coi miei occhi rinunciare alle loro ancestrali empietà e accogliere la dottrina dell’Evangelo. Una volta corsi un pericolo forte assai: Simeone aveva detto loro di venire da me per chiedermi la benedizione sacerdotale, dicendo che ne avrebbero avuto grande giovamento. Quelli allora si precipitarono in modo piuttosto barbaro: chi mi strattonava da davanti, chi mi spingeva da dietro, chi mi spintonava ai fianchi mentre quelli più lontani volevano avvicinarmisi e allungavano le mani (chi per tirarmi la barba, che per prendere i miei vestiti). Sarei stato soffocato dal loro troppo veemente assalto, se lui non si fosse messo a urlare per disperderli! Vedete quanto bene ha fatto sgorgare quella colonna, della quale i buontemponi si fanno beffe? Vedete che raggio di divina conoscenza ha fatto scendere sull’intelligenza dei Barbari?
Ivi, 14, p. 192
Segue una lunga sfilza di grazie e miracoli impetrati da Simeone (non ultima, anche la Regina degli Ismaeliti avrebbe concepito grazie a lui! [cf. ivi, 21, pp. 202.204]), e Teodoreto conclude il suo cameo – prima di formulare il voto che Simeone perseveri fino alla fine nel suo stato di vita (come poi sarebbe avvenuto) – ricordando che la distanza di Simeone dal “contagio” mondano, la sua quarantena perpetua, non lo rese affatto avulso alle convulse vicende di questo mondo:
Pur vivendo così e facendo le sue cose, egli non si disinteressa neppure della cura delle sante Chiese: ora | lottando contro l’eresia dei greci, ora sgominando l’audacia dei giudei, ora poi disperdendo bande di eretici; e poi una volta scrive all’imperatore su questo argomento, un’altra pungola gli alti funzionari a prendere a cuore i diritti di Dio, un’altra ancora è agli stessi pastori della Chiesa che raccomanda di prendersi meglio cura del gregge.
Ivi, 27, pp. 210.212
Insomma Simeone è un tipo da conoscere, in queste giornate di quarantena forzata che ad alcuni sembrano troppo lunghe (ho letto su Twitter di persone che stanno per farsi una cultura con le etichette dei detersivi [sai che scoperte li attendono!]): «mantenersi puri da questo mondo» (Gc 1,27) è buona norma igienica, che non vale certo solo in tempo di epidemie cliniche.
Fonte: Giovanni MARCOTULIO | Aleteia.org