Provo a raccontarvi come sto vivendo questi giorni di isolamento.
In questo momento penso che scegliere di ridurre al minimo le possibilità di contagio sia un gesto che tutela l’interesse comune e per questo diventa segno dell’unità: non c’entrano la paura, il carattere, le abitudini; è una scelta: possiamo scegliere il bene di tutti a discapito del nostro immediato bisogno personale.
In questi giorni mi sono trovata tra le mani un grande tesoro che il modo di vivere frenetico che scandisce il nostro tempo mi aveva fatto sfuggire.
I miei figli, le loro belle persone, che, per grazia di Dio, almeno in questo momento, non sono legate alla loro prestazione (scolastica, sportiva, di socializzazione).
Sapevo anche prima che non dovevo misurarli, ma finivo per farlo, immancabilmente: quando i compiti non erano svolti in modo preciso, quando ci mettevano un sacco a prepararsi e mi facevano arrivare in ritardo da qualche parte, quando non corrispondevano al mio ideale di efficienza.
I bimbi si sono sentiti molto a loro agio a casa, soprattutto Ryan (in affido da poco più di un anno), che mi ha detto più volte “sto proprio bene qui”, ma anche Yasmin e Mauro che sentono la mancanza di amici e maestri, ma che per la prima volta hanno trovato tra loro interessi comuni e complicità: i primi giorni il tutto è iniziato come una vacanza, si dormiva fino a tardi e ci dilettavamo nella preparazione di cibi fatti in casa, poi i ragazzi (3, 9 e 10 anni), quando hanno visto che il mio impegno per la scuola aumentava (molto al di sopra del mio normale orario di lavoro), si sono attivati nelle piccole faccende di casa (Mauro ha fatto la doccia a Ryan e lo ha vestito, Yasmin ha sistemato la camera, per la cucina si sono dati i turni).
Ho dei figli davvero in gamba. Perché né io né loro ce ne eravamo accorti prima di oggi? Come queste competenze e qualità sono emerse?
Credo che il tempo e la libertà di scegliere siano stati i fattori che hanno portato i ragazzi a fiorire e credo che il mio sguardo, più attento, e finalmente liberato dalle presunte abilità che volevo che raggiungessero (mutuate peraltro dall’esterno e poco vagliate dal mio personale impegno educativo) abbiano fatto da terreno fertile perché qualcosa che già c’era si manifestasse.
Un genitore, se si guarda dentro, si sente ultimamente inadeguato all’educazione dei figli, e nel caso di figli in affido questa condizione di inadeguatezza è ancora più bruciante perché non siamo in grado di rispondere nemmeno in minima parte alle domande che le fatiche della vita pongono loro: fino a oggi quello che io e mio marito Mirco ci siamo impegnati a fare è stato di ripartire ogni volta che sentivamo la fatica, chiedendo aiuto agli amici e provando a “essere più buoni”, il che significa anche avere un po’ di compassione per la propria povertà. Oggi posso dire che anche farsi da parte e attendere la loro mossa, è un modo per farli crescere. La mia avventura educativa è a una svolta e il difficile momento che stiamo vivendo è stato, in questo senso, una grande opportunità.
Il secondo aspetto della mia vita che ha subito grandi trasformazioni è stato il mio rapporto con la scuola che è un lavoro, ma anche, ancora una volta, un impegno educativo.
Sono stata una delle prime insegnanti ad attivarsi con video-lezioni, web-conference, test su piattaforma… addirittura, ieri, ho interrogato i ragazzi (rigorosamente su cose spiegate prima della chiusura) via web; in sostanza, come è nel mio carattere, mi sono messa al lavoro, e, anche se era la prima volta, il tutto mi è riuscito molto bene. Alla fine della mattinata di video-interrogazioni con i ragazzi ero stremata e “sconfitta”.
Nella sostanza i ragazzi avevano il voto, ma a me mancava il rapporto con loro come classe, il fatto di imparare con loro mentre spiego, il fatto di utilizzare i loro dubbi e i loro errori per approfondire gli argomenti. Di solito i ragazzi si aiutano tra loro, invece ieri ciascuno si riferiva a me e non c’era interazione tra loro. Insomma, tanta fatica per niente, anche perché, spendendo il doppio del tempo, in due settimane ho fatto circa la ventesima parte di quello che farei di solito!
Questa mattina ho raccontato la mia esperienza a un amico sacerdote che mi ha subito detto che l’esperienza della sconfitta fa parte del nostro essere e che dovevo provare a farci i conti, poi ha aggiunto che anche i sacerdoti in questo momento non potendo vivere la dimensione comunitaria si sentono come mi sono sentita io.
Su questo secondo punto i lavori sono in corso, un’intuizione che ho avuto scrivendo è che anche per i miei alunni ora è il momento della mossa personale, come per i miei figli, non semplicemente perché qualcuno sfrutterà i miei materiali facendo il proprio dovere, mentre altri accamperanno scuse, dicendo che il pc era rotto, ma perché avranno finalmente la possibilità di fare domande libere dal voto, di approfondire ciò che a loro piace di più, di entrare in rapporto tra loro e con me, non perché sono obbligati, ma perché la loro umanità nel rapporto con il prof e i compagni fiorisce.
La normale didattica ci fa pensare in modo ingannevole che controlliamo la situazione, invece è la libertà degli alunni che attendiamo: la condizione dell’educatore non è di sconfitta ma di attesa della libertà dell’altro che gli si fa incontro.
Vi aggiornerò sugli sviluppi di questa seconda parte.
Fonte: Roberta PERETTI | Aleteia.org