V’è stata, in effetti, una prima consolatio statistica, relativa all’età media delle vittime del coronavirus (81 anni e con pluripatologie) e poi una consolatio geografica, relativa al primo diffusore del virus in Europa: un tedesco. Ha fatto seguito, poi, la consolatio tecnico-scolastica della videolezione da fare per tenere impegnati gli studenti.
Tutte queste strategie tranquillizzanti, a mo’ di anestetico locale (la vita di un ottantenne non è sacra? Tedeschi o cinesi, dunque non noi!), tuttavia, non guardano in faccia la realtà dell’imprevisto cigno nero e non tengono conto dello strappo avvenuto nel rapporto docente/studente e nel tessuto sociale. Mettono in disparte l’inquietudine perturbante che porta la possibilità del contagio attraverso i rapporti interpersonali e la paura di scenari futuri difficili.
A tale strappo e all’inquietudine, senza infingimenti e con parrēsia pedagogica, ha cercato di dare risposta il dirigente scolastico del Liceo Volta di Milano, con una lettera aperta che ha colto il livello umano del dramma in atto. Non a caso, il suo intervento è stato ripreso da numerosi e autorevoli giornali internazionali, diventando un caso mediatico. Questo perché è proprio la nostra comune umanità ad essere messa in gioco dall’epidemia.
Come essere, allora, veramente vicini nella situazione di crisi ai nostri studenti? Di fronte alla loro paura, al vuoto delle giornate senza socialità e alle ore passate sui social? Bastano sei ore consecutive in e-learning?
Si può essere con loro, non solo virtualmente e formalmente, a mio avviso, se accogliamo noi per primi la ferita e l’urto della realtà, confrontandola con quanto ci possono dare i grandi maestri del passato e le testimonianze di vita grande, oggi. Il coronavirus può essere così l’occasione per ricordare che il 4 marzo di 15 anni fa Nicola Calipari donava la vita per salvare una vita o per interrogare il testo di Tucidide sulla Peste di Atene, guardando al rischio che vengano meno la pietas e la forza del vincolo civile, o di leggere il De Rerum Naturae di Lucrezio, tenendo conto del metus che colpisce di fronte alla morte, sentita non più come accidente irreale ma possibilità effettiva. Non consolazioni dunque, ma la realtà in atto.
Può essere, anche, questo tempo, l’occasione per tornare al Dostoevskij di Delitto e Castigo, che nel sogno apocalittico di Raskol’nikov mette in scena l’avanzare della peste come distruttrice e disgregatrice di Stati, eserciti, mondi. Il genio russo, tuttavia, ritiene che la peste sia, comunque, qualcosa che ha a che fare con la profondità abissale dell’uomo e ha perciò bisogno di una guarigione dal di dentro. Non basta perciò il nobile e straordinario sforzo umanitario del dottor Rieux de La peste di Camus, ma è necessario un “di più”.
In Dostoevskij è una presenza presente, umile e vera, quella di Sonja che, con amore, porta un “di più” che consente a Raskol’nikov di passare dal buio alla speranza, dalle tenebre alla salvezza. E proprio un’ altra donna, l’anestesista di Codogno, forzando le procedure, assumendo un rischio e pensando all’imprevedibile, ha consentito il rallentamento dell’epidemia.
Insomma, questa drammatica situazione ha bisogno non di istruzioni per l’uso, ma di tanti io che riscoprano il valore della loro umanità. La paura del caos, del precipizio non può vincere, se partiamo dagli esempi di solidarietà verso le/nelle zone rosse e dalle domande dei nostri allievi, ora.
Le domande che urgono nel cuore, infatti, vengono prima di una tecnica, di un sapere o una legge. Alex della II Les del Cobianchi di Verbania scrive: “ciò che accade mi interroga su chi sono io, cosa desidero e chi sono i miei amici”. Si tratta, dunque, di urgenti “perché?” che danno la possibilità di un percorso da vivere e attraversare da uomini, con la fiducia che questo male non ha l’ultima parola e può esser vinto insieme.
Fonte: Vincenzo RIZZO | IlSussidiario.net