Ci siamo arrivati. La crisi economica annunciata da mesi è qui, e con una violenza inaudita: in qualche settimana, l’attività economica mondiale sarà stata ridotta di un terzo, gli attivi finanziari avranno perduto più del 40% del loro valore, i debiti pubblici e privati hanno ampiamente superato i limiti prudenziali che fino a poco tempo fa consideravamo invalicabili, e il mercato del lavoro potrebbe conoscere la proliferazione di 25 milioni di disoccupati, nei prossimi mesi (stando all’Organizzazione Internazionale del Lavoro).
La cosa stupefacente non è che questa crisi sia arrivata perché – una volta tanto – non si può dire che non fosse annunciata: la cosa stupefacente è che essa giunga per l’azione imprevedibile di un virus che stende a tappeto una dopo l’altra tutte le zone economiche. Il fatto è che il Covid-19 opera come un rivelatore indiscreto dello stato di salute della nostra società: esso non produce né civismo né incivismo, né solidarietà né egoismo, ma porta allo scoperto il grado di civismo o di incivismo, di solidarietà o di egoismo di cui siamo capaci. Esso conferma le forze e le fragilità dei legami umani, le fratture e le ineguaglianze sociali, il grado di integrazione e di coesione del famoso “vivere comune”. Bisognerà ora trarre sistematicamente le lezioni di questa messa a nudo della società.
Vale lo stesso per l’economia. La pandemia non è sornionamente sopraggiunta a colpire un capitalismo mondiale in buona salute: essa colpisce un’economia già febbricitante, dei mercati finanziari onnipotenti ma che vanno nel panico e si sbriciolano nel momento del pericolo e un’ideologia liberale ieri arrogante che oggi mendica un intervento massivo degli Stati e saluta con entusiasmo il ricorso all’indebitamento pubblico che la salvi. Anche qui bisogna trarre lezioni di cose che sapevamo ma che vengono ora in piena luce: la speculazione aveva contaminato l’economia ed era anzi il motore della sua crescita.
Il virus della speculazione
Speculazione sulla Cina, la cui corsa allo sviluppo negli ultimi quattro decenni non è stata possibile che per l’abbuffata dei consumatori occidentali e per il loro incontrollato indebitarsi; speculazione sui mercati finanziari che valutano gli attivi economici in modo sempre più sconnesso da ogni realtà, e millantano le “belle storie” delle startup per continuare a promettere profitti impossibili; speculazione nelle imprese sulla produttività del lavoro, dopato e intensificato per toccare livelli di performance sempre più esigenti; speculazione sulle innovazioni (l’automobile autonoma, l’intelligenza artificiale onnisciente, l’uomo aumentato e le nuove conquiste su Marte) che si nutre di science-fiction per sopravvalutare i capitali investiti e far girare – costi quel che costi – la macchina finanziaria; speculazione sui nostri modi di vita, sul fine del lavoro, sul settore immobiliare, sull’onnipotenza del mercato-che-non-sbaglia-mai…
L’invisibile ma tenace Covid-19 ha reso eclatanti le bolle speculative e le ha dunque fatte scoppiare: lo schermo totalitario della Cina, punto di partenza della pandemia, non può più nascondere la sua fragilità strutturale; le aberrazioni dei mercati finanziari sono diventate insopportabili, poiché dopo una sopravvalutazione delirante degli attivi, nel gennaio 2020, essi disertano nel panico la battaglia economica e non si attendono nuovi arricchimenti che dall’intervento pubblico; il cattivo orientamento dell’investimento utile laddove ci scopriamo incapaci di distribuire a sufficienza prodotti semplici come delle mascherine al personale medico e paramedico e posti letto ai nostri malati.
Come venirne fuori?
Il Coronavirus ha attaccato un corpo fragile, ma non ci si può attestare ai generali appelli al cambiamento dello stile di vita e alla “de-finanziazione” dell’economia. Bisogna fin d’ora immaginare come si possa procedere, se vogliamo riuscire. Ora, gli effetti della crisi sull’economia si faranno sentire in tre tappe di cui bisogna tenere conto:
- effetti immediati fintanto che durerà la crisi sanitaria;
- effetti che si mostreranno non appena usciremo dalla prima fase per entrare nella crisi economica propriamente detta;
- effetti a lungo termine sulle strutture dell’economia e sulle mentalità.
È lo sguardo su questa terza linea d’orizzonte che deve guidare la nostra azione: la pandemia ci dà l’opportunità di regolare una macchina economica speculativa diventata folle che rendeva fragili le risorse umane e ambientali, ma anche le fonti di senso, facendo della corsa e dell’agitazione uno (sfiancante) stile di vita. È questo che si può aspirare a cambiare, non proponendo una soluzione-miracolo o un astratto “nuovo sistema” produttivo, bensì – al contrario – liberando le coscienze e le pratiche dalle soffocanti costrizioni in cui l’impresa speculativa le confinava. Tenere questo obiettivo a mente e poi passare per le tappe della realtà.
Prima tappa: durante la crisi sanitaria
A brevissimo termine, la sfida è che le economie tengano in funzione del numero di settimane che durerà la crisi sanitaria – in Europa, poi negli Stati Uniti e altrove nel mondo. Ne va della sopravvivenza di milioni di persone: l’essenziale è poter mantenere l’attività in settori-chiave come la sanità (ovviamente) e nelle filiere di approvvigionamento logistico di beni di consumo (i quali dipendono, a seconda dei Paesi, dalla produzione già stoccata e dalla disponibilità dei salariati nei depositi e nelle società di trasporto). Parallelamente, si assiste al puro e semplice arresto dell’attività di piccole e medie imprese, di commercianti, di artigiani e di alcune grandi imprese commerciali (vestiario, profumi, turismo, trasporti) o edili. È poco probabile che il buco degli affari andati in fumo in questo periodo possa essere ripreso: per questo il mantenimento anche parziale delle attività limiterà parimenti l’entità delle perdite future.
In questo contesto, la capacità delle banche di assicurare crediti alle imprese cozza col degrado dei loro propri bilanci per il fatto che i loro clienti rischiano il fallimento e che crolla il valore degli attivi finanziari. Per evitare il circolo vizioso della depressione che potrebbe conseguire (niente credito —> niente attività —> niente credito…), gli Stati e le banche centrali hanno messo in azione dal 16 marzo un trattamento-choc, che supera le proporzioni di quello della crisi del 2008: rinvio dei contributi fiscali, presa in carico dei salariati a mezzo di cassa integrazione, garanzia statale per crediti a piccole imprese, riscatto dei debiti da parte delle banche centrali, abbassamento dei tassi di prestito alle banche e via dicendo. Così facendo, si riportano sul debito publico – dunque, nel tempo, sull’imposta – gli sforzi di stabilizzazione di oggi. L’evoluzione del CAC40 [“Cotation Assistée en Continu”: è il principale indice di borsa francese, N.d.R.] che, malgrado la batosta, si mantiene ancora per un 25% al di sopra del suo storico limite basso, del 2008, sarà un segno dello stato di fiducia riguardo alle misure prese, perché non siamo che all’inizio di quest’enorme sforzo pubblico per evitare fallimenti privati a cascata.
Seconda tappa, la crisi economica propriamente detta
La deflagrazione economica si manifesterà in pienezza all’uscita dalla crisi sanitaria. Quest’ultima avrà infatti indebolito tre pilastri degli equilibri economici:
- l’attività propriamente detta, sospesa in tutto il mondo per più settimane;
- i patrimoni dei risparmiatori, e specialmente dei sistemi pensionistici che funzionano per capitalizzazione, intaccati dal forte ribasso dei mercati finanziari;
- il debito pubblico, il cui accrescimento andrà a essiccare le capacità di finanziamento dell’economia.
La situazione è sufficientemente inedita perché non possiamo fare oggi se non congetture sulle reazioni degli agenti economici una volta che saranno tolte le restrizioni. La Banca Centrale Europea pronostica fin d’ora una recessione continentale del 5%, e il Fondo Monetario Internazionale ne vede uno dell’1% a livello mondiale – cifre conformi a quelle del 2009.
Ditte e famiglie dovrebbero logicamente consumare di più, ma resterà da sapere fino a che punto questa rincorsa compenserà le perdite di attività registrate durante i mesi precedenti: per i trasporti, il turismo o i settori sensibili ai ritmi stagionali, come l’abbigliamento, esse sembrano irrecuperabili. L’incertezza è tanto più grande in quanto si potrebbe assistere a quel che gli economisti chiamano “effetto ricchezza”: le attività che hanno visto sgretolarsi il loro patrimonio potrebbero preferire ricostruire il loro risparmio in sicurezza, e dunque consumare relativamente meno.
Dal versante delle imprese, l’uscita dalla crisi sanitaria s’accompagnerà con la cessazione del sostegno pubblico all’attività economica: bisognerà pagare tasse e contributi (che sono stati soltanto rimandati per evitare di aggravare il debito pubblico ma che restano dovuti), i salari e i fornitori. Tutto dipenderà, per ogni impresa, dalla rapidità con la quale gli affari ripartiranno: senza dubbio più rapidamente in certi settori industriali chiamati a rinnovare gli stock che nei servizi. Tutto dipenderà pure dalla maniera in cui si realizzerà la ripresa del lavoro “normale”: dopo settimane di attività a distanza in un contesto fortemente distanziato (ma diciamo pure degradato, ansiogeno), nessuno sa come e con quale energie i lavoratori torneranno a piegarsi a rinnovate esigenze di performance.
Un’opportunità storica per regolare il capitalismo speculativo
Su un terzo livello – il più vasto, il più decisivo – la deflagrazione economica invoca un aggiornamento delle credenze dominanti in materia economica: è la conseguenza più promettente di questa crisi. Nel suo intervento del 16 marzo Macron ha concesso:
Vinceremo, ma questo periodo ci avrà insegnato molto. Molte certezze, molte convinzioni verranno scosse e saranno rimesse in discussione.
Restano da trarne conseguenze pratiche. Tra le certezze già scosse:
- la dimensione fatalmente positiva della mondializzazione: la mutua dipendenza tra le economie è diventata troppo forte, e sono gli Stati-nazione che si sono rivelati efficaci in tempo di crisi;
- l’onnipotenza dei mercati finanziari incaricati di orientare il risparmio verso gli investimenti e che sono drammaticamente falliti quando si è presentata l’urgenza economica;
- la giustizia di un sistema economico che permette profitti privati inauditi ma che, quando la situazione si degrada, riporta le perdite sugli Stati (cioè sulle collettività);
- la corsa al consumo, che si duplica nella corsa alla produzione, alla performance per la performance, e in ogni forma di speculazione come stile di vita assurdo e pericoloso.
Non si capisce come potremmo ripartire come se il Covid-19 non avesse rivelato nulla delle criticità del capitalismo speculativo. A differenza della crisi del 2008, le attività avranno sperimentato la reale vulnerabilità delle nostre società (dalla diffusione del virus fino all’esaurimento delle riserve di medicinali, per esempio) e le patenti ineguaglianze (redditi del personale medico e paramedico contro quelli dei traders). Avranno pure realizzato, nel quotidiano, la possibilità di vivere differentemente consumando meno o lavorando in modo nuovo. Avranno vissuto inediti momenti di solidarietà e/o di tensione. Avranno passato lunghi momenti di reclusione davanti a degli schermi, e questo potrebbe produrre un certo disincanto riguardo alla digitalizzazione. Avranno sperimentato la confusione tra spazio famigliare e spazio professionale. Quando tutto s’è fermato, avranno sentito per la prima volta in maniera diretta che tutto è legato – la produzione economica intensiva e le sue conseguenze negative sui bioritmi, sull’aria, sul silenzio o sull’ambiente in generale –. Il desiderio di cambiamento dello stile di vita, già sensibile in questi ultimi anni, non potrà che confermarsi.
Rivalutare lo spazio politico
Ciò non significa che esso debba essere rigettato in blocco: il recente periodo di crescita ha portato anche molto di positivo, compresa la mondializzazione. Senza i collegamenti dell’Internet, la reazione degli Stati non sarebbe stata della medesima ampiezza, le imprese non avrebbero potuto continuare le loro attività in telelavoro, e i privati non avrebbero potuto comunicare; senza l’abitudine di cooperare su scala internazionale, i progressi nel trattamento della pandemia o la ricerca di un vaccino sarebbero potuti essere più incerti e via dicendo. Non si tratta di tutto o niente, ma di una rivalutazione dello spazio politico ottimale, quello che assicura ai cittadini la sicurezza più grande, sociale o economica che sia. La questione si pone da diversi anni. Fino a poco fa ancora ridotta all’oziosa etichetta di “populismo all’arrembaggio”, nei mesi che verranno diventerà centrale, anche per rifondare all’economia spazi che siano maneggevoli ed efficaci. La rilocalizzazione della produzione in Europa, già prevista alla fine dello scorso decennio, dovrò accelerare. Questo avrà un effetto destabilizzante sulla crescita asiatica, donde gli sforzi di comunicazione cinesi per provare al mondo che il Celeste Impero ha veramente superato la crisi sanitaria e che dunque tutto può tornare come prima.
Le imprese dovranno andare ormai ben al di là delle loro modeste politiche di “responsabilità sociale”, per mettere al centro della loro strategia progetti economici e sociali che partecipino alla costruzione di una società degna di rinnovare il senso del lavoro, le energie e gli impegni dei collaboratori e dei consumatori. Avremo bisogno di senso per i nuovi sforzi che il rimetterci in piedi richiederà. Per rilanciare l’investimento, la crisi offre un’opportunità storica di tornare a orientare il risparmio di famiglie e ditte verso spese che permettano di ricostruire un’economia utile e sostenibile.
Rinforzare l’economia reale
Per questo, sarebbe indispensabile allentare le costrizioni finanziarie a breve termine sulle imprese. Tra le misure da prendere, si potrebbe pensare a un massimale temporaneo dei dividendi per restituire agli imprenditori la padronanza degli investimenti; l’abbandono delle norme contabili dette IFRS imposte nel primo decennio del secolo e che obbligano a contabilizzare gli attivi delle imprese sul prezzo dei mercati, e dunque li legano alle loro fluttuazioni; o ancora una riforma del diritto societario che non accordi il diritto di voto se non alle azioni detenute almeno un anno (insomma un esercizio contabile), cosa che permetterebbe di distinguere i veri azionisti (impegnati nel progetto dell’impresa) dai semplici investitori (per i quali la durata della detenzione dei titoli si attesta oggi sugli 11 giorni circa). Tali misure tecniche, innovative ma non rivoluzionarie, attenuerebbero il legame tra la sfera finanziaria e l’economia reale. Perfettamente ricevibili nel periodo eccezionale che attraverseremo ancora per qualche mese, esse sono alla portata di un potere politico che prenda atto di come «molte convinzioni verranno scosse».
Nuovi modi di produrre e consumare
Gli Stati sono dovuti intervenire per evitare il disastro economico. Nel prossimo triennio il loro indebitamento si accrescerà nell’ordine del 25%, e i cittadini dovranno acconsentire a degli sforzi per sanare quel debito in un contesto sociale degradato dalla disoccupazione. Ciò dovrebbe paradossalmente conferire maggior peso agli Stati e alla società civile perché possano imporre nuove regole economiche. La situazione è sufficientemente inedita perché non perdiamo tempo a discutere di ingenue utopie o a tratteggiare scenari catastrofici; si tratta invece di incoraggiare misure e iniziative che inneschino nuovi modi di produrre e di consumare su piccola e su grande scala.
Se non si farà questo, i custodi del tempio della Finanza predicheranno che tutto dovrà ricominciare come prima: lo spirito malvagio della speculazione formulerà nuove inaudite promesse di guadagni e di profitti, vanterà inedite e mirifiche prospettive tecnologiche e allestirà oasi di credenze in un progresso radioso – e allora non avremo imparato niente.
Fonte:Traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio – Aleteia.org