Purtroppo Covid-19 miete vittime, provoca enormi sofferenze, scava buchi affettivi difficilmente colmabili, e va ad implementare l’azione devastante di un suo cugino che, purtroppo, gli sopravviverà: il virus della “cultura della morte”. Dovendo affrontare il dramma della discrepanza fra posti disponibili per accogliere pazienti Covid nelle Terapie Intensive del nostro Paese e numero altissimo di Pazienti che ne hanno bisogno, la Siaarti (Società Italiana Anestesia Analgesia Rianimazione) ha proposto un criterio basato sul “principio di probabilità di sopravvivenza” e “di anni di vita salvati”. Con il correlato della valutazione della probabilità di ripresa funzionale accettabile, post-infezione. Si tratta di criteri che vanno affrontati con grande prudenza, se si vogliono evitare due rischi opposti, entrambe sbagliati: da una parte la condanna a priori, dall’altra l’applicazione automatica secondo un rigido protocollo.
Quel che accade
Non a caso il Presidente della Società Italiana di Geriatria e Gerontologia ha sentito il dovere di intervenire, mettendo in guardia da possibili e nefasti scivoloni verso un “darwinismo sociale”, quando si sposasse l’idea che il più adatto alla sopravvivenza è sempre e comunque un giovane sano che si ammala di Covid, scartando a priori l’anziano o il disabile. Purtroppo non stiamo parlando in via teorica di potenziali rischi, perché è esattamente quanto sta già accadendo in altri Paesi. In alcuni stati USA e del Nord Europa, ad esempio, è già stato fissato un limite di età invalicabile per un candidato alla Terapia Intensiva: 75 anni. In Alhabama, lo “Scarce Resource Management” afferma che “disabili psichici sono candidati improbabili per il supporto alla respirazione” e in Olanda si raccomanda ai medici di famiglia di contattare il loro assistiti anziani perché scrivano un documento ove dichiarino se vogliono una possibile lunga intubazione o l’astensione dalle cure vitali. Purtroppo l’elenco è molto più lungo rispetto a quanto citato.
L’imperativo di partenza
Caratteristica ricorrente in tutti questi nefasti protocolli è l’utilizzo di categorie definitorie molto generiche e vaghe – del tipo “disabili psichici”, “grave disturbi neurologici”, “disabilità mentali”: non è una svista, ma una precisa scelta socioculturale che spalanca la porta ad un’enorme gamma di interpretazioni, che vanno dal giovane con SLA o SM, al ragazzo Down o autistico, fino al ritardo mentale di ogni grado. E’ veramente drammatica l’analogia con quanto accadde in Germania negli anni ’20/’30 con il protocollo Aktion T4 ispirato da Hocke e Binding. E’ pertanto necessario fissare alcuni punti inderogabili che – partendo sempre dall’imperativo della difesa della vita di ogni paziente – aiutino chi si trova nella drammatica circostanza di dover intervenire su due malati, avendo a disposizione un unico ventilatore. Una scelta che vorremo non fare mai, ma che le miopi e superficiali politiche sanitarie degli ultimi decenni, imponendo irragionevoli tagli, ha reso drammaticamente necessaria.
Il principio di appropriatezza della terapia
Il punto di partenza deve essere chiaro: non si possono accettare parametri rigidi e a priori. Ogni scelta deve essere formulata “bed side”, davanti al singolo malato, perché così come non esiste un uomo identico ad un altro, non esiste un malato uguale ad un altro, valutando lo stato di salute/malattia in corso, presenza di eventuali co-morbilità di grado ed intensità variabili, formulando anche un giudizio prognostico rigoroso, fondato sulle conoscenze mediche attuali e sulla esperienza specifica del medico attore. Inoltre, mantenendo l’obbiettivo di tentare di salvare sempre tutti, si deve porre attenzione per evitare di eccedere in terapie futili, dannose, che non farebbero altro che aumentare la sofferenza del paziente, senza un concreto beneficio. Il tutto si può riassumere nella rigorosa applicazione del “principio di appropriatezza” della terapia, che prescinde da aprioristici pregiudizi ideologici.
L’indegna selezione che scarta i fragili
Al dato dell’età del paziente va data importanza quasi nulla e va comunque letto dentro la cornice clinica complessiva del singolo paziente. Ogni categorizzazione che imponga uno sbarramento all’accesso alla terapia è inaccettabile, sia che si tratti dell’età o della disabilità fisica o cognitiva. Come extrema ratio va messo in atto ogni sforzo per cercare possibili alternative nella cogenza indifferibile di una scelta: pensare a forme di ventilazione senza intubazione, attrezzarsi per il trasferimento del paziente, con ogni mezzo, compreso elisoccorso o aereo. Solo alla fine di questo virtuoso percorso, se ogni strada è sbarrata e impraticabile, con il groppo in gola e gli occhi umidi, si sarà costretti a fare la “dannata” scelta. Avendo assolutamente cura di alleviare al massimo le sofferenze di chi è rimasto escluso, attraverso un percorso palliativo di accompagnamento alla morte naturale, senza derive eutanasiche. In conclusione, il principio fondamentale è che non esiste una vita umana più degna di un’altra, che non esiste una vita di qualità e una di scarto, che sempre “uno vale uno” senza deroghe. Il pensiero dominante che alimenta la cultura dell’efficienza psicofisica, selezionando e scartando i “fragili”, è indegna di una società civile.
Fonte: Massimo GANDOLFINI | InTerris.it