Una giornata in corsia
— 8 Aprile 2020 — pubblicato da Redazione. —Venerdì 21 febbraio. Amedeo Capetti, medico infettivologo all’ospedale Sacco di Milano, terminati gli esami di Fisiologia al corso di Laurea in Infermieristica, riaccende il cellulare. Ci trova un’infinità di messaggi allarmati e di domande: «Cosa sta succedendo?», «Cosa facciamo?». Si collega al sito della Regione Lombardia: i numeri dicono che l’epidemia è in atto. Da subito, al Sacco vengono trasferiti i primi malati da Codogno e Lodi. È l’inizio dell’emergenza che vedrà l’ospedale milanese in prima linea. Si aprono nuovi reparti di terapia intensiva e nuovi spazi per accogliere i pazienti.
Capetti è responsabile della struttura che si occupa di malattie sessualmente trasmesse, segue circa seicento pazienti Hiv positivi. E, pur continuando nel limite del possibile questa attività, si trova immerso nell’emergenza, durante i turni di guardia al Pronto soccorso e in reparto. Ci sono volute alcune telefonate per farsi raccontare quello che sta vivendo. Alla prima, durante una pausa dal bar dell’ospedale, esordisce: «Da sempre, al malato che mi dice: “Dottore, la salute è tutto”, io rispondo: “Guardi, è una battaglia persa. Prima o poi si muore. La salute è uno strumento perché la vita possa incontrare Chi ce l’ha donata, Chi ci ha voluti, e raggiungere la sua bellezza e grandezza”. In questi momenti per me è ancora più vero. È vero quello che ci ha insegnato don Giussani e che Julián Carrón ha ripreso nel suo articolo al Corriere della Sera, che è di grande compagnia: la coscienza che uno ha di sé, cioè di rapporto con l’infinito che ti fa essere attento al reale nei suoi particolari. Comprendi l’importanza del mattoncino che stai mettendo».
Pochi giorni dopo, un’amica infermiera risultata positiva al virus, è ricoverata al Sacco. La famiglia è in quarantena, la moglie di Amedeo dice: «Chiamiamoli per sapere se hanno bisogno della spesa». Lui va a trovarla in reparto, ma nella stanza, se non per ragioni mediche, non si può rimanere più di tanto e così ogni mattina fa avere a lei e alla sua compagna di stanza delle brioches con un biglietto. Un’abitudine che si è allargata ad altri pazienti. «Sono persone che amici mi segnalano. Appena posso vado o ci si sente al telefono. Chi sta molto male ha bisogno per lo più di cure, ma chi è in una situazione non grave o in quarantena si sente praticamente in galera e la paura prende il sopravvento. A volte basta sentirsi al cellulare».
La paura è la parola che ritorna nelle tante telefonate, fino a 150, che riceve ogni giorno. Molte sono dei suoi pazienti malati di Hiv. Gli chiedono come sta e poi vogliono scambiare due parole. Spesso è costretto a dire «ti richiamo», perché non ha tempo. «Io combatto la paura dicendo di stare attaccati alle misure di prudenza indicate, ma di non perdere mai la domanda sul significato della vita, di non ripiegarsi su di sé, di non perdere i legami di amicizia e di guardare a chi ha bisogno. Certo, questo era più facile prima che la situazione imponesse di chiudere tutto e stare in casa. Ma la creatività non manca. Il limite può scatenare la fantasia. I pazienti sentono il bisogno di comunicami la loro paura perché sanno il bene che gli voglio. È sempre stato così, anche prima del Coronavirus. Ma questo non sarebbe possibile se non per la ricchezza di storia che ho incontrato. Mi alzo al mattino e ringrazio del miracolo che sarà la giornata. È un’attesa dentro le circostanze che la bellezza, la speranza si palesi. E ogni giorno accade».
Come con la barista dell’università. Un giorno, un amico ricoverato gli dice che ha voglia di lasagne. Amedeo va al bar dell’università, dove si cucinano piatti caldi. Ci sono solo spaghetti con le cozze. Li prende e, al momento di pagare, la barista gli dice: «Questi li offro io. È il minimo che posso fare». Dopo qualche ora, lui torna con un mazzo di fiori. La donna, imbarazzata: «Ma non doveva». E lui: «Questa si chiama gratitudine. È la stessa che ha mosso lei oggi a pranzo ed è la cosa più bella».
Alcuni pazienti, quando le condizioni lo permettono e possono rimanere da soli, vengono rimandati a casa in quarantena domiciliare, in attesa dell’esito del tampone. Amedeo si è assunto il compito, nel fine settimana, di chiamare per comunicare il risultato. «Fin dalla visita, in una manciata di minuti ti giochi il rapporto con loro. Nasce una familiarità inattesa, che continua». Un giorno, Capetti chiama la mamma di un ragazzino. Il tampone è positivo e deve tornare in ospedale. Amedeo offre tutta la sua disponibilità per continuare a seguire il figlio. Allo specializzando, che durante la guardia lo aveva affiancato, chiede la stessa cosa. «Appena arriva vado a salutarlo», gli dice immediatamente. «Non ci conoscevamo prima di quel turno». E il ragazzino è diventato uno dei pazienti a cui porta la brioche mattutina.
Al mattino, appena arriva in ospedale, Amedeo trascrive i nomi dei suoi pazienti Hiv a cui prescrivere la terapia, fotografa con il cellulare l’elenco e lo invia a sua moglie, che li chiama per dirgli dove devono andare a prendere i medicinali salvavita, perché l’ambulatorio al Sacco è chiuso. Una mattina, alle cinque e mezza, lei era in piedi con lui per fare colazione assieme e a metà giornata gli invia un pezzo di Scuola di comunità. «Mi si è allargato il cuore. È stata la carezza di Dio. È quello che dice Carrón: “Persone in cui si documenta la vittoria di Dio, la sua presenza reale e contemporanea”. Sono le facce dei miei amici, che sono al fondo del mio sguardo, di cui faccio memoria ogni giorno. Poi ci sono le suorine del Martinengo, con cui sono in contatto fin dall’inizio per capire come gestire la situazione con i bambini che frequentano il loro Centro diurno. La loro letizia e costruttività sono il segno lampante della presenza di Gesù. Non se le danno loro». Con il traffico ridotto a zero, il viaggio per andare al Sacco è giusto il momento della preghiera con la recita delle Lodi, facendo sfilare nel cuore la famiglia, gli ammalati e chi ha bisogno. «Si inizia la giornata con una coscienza diversa. In questo periodo la preghiera è una gratitudine e una curiosità». In che senso? «È come vedere l’ombra di una persona e ti chiedi: come sarà? È lo stupore di trovarmi ogni mattina davanti a quell’ombra domandando che si faccia presente, che si sveli. Fino a dire: chi sei Tu, che stai riempiendo così la mia vita? È il grido di cui ha scritto Carrón nella lettera al movimento». Quando «la circostanza diventa così sfidante da aver bisogno di gridare per poter stare davanti ad essa».