Siamo noi che decretiamo l’emergenza: inevitabilmente. La paura e l’impotenza sono i due demoni che ci spingono a cercare una formula salvifica per combattere un nemico sconosciuto, e a chiedere allo Stato di andare al di là dei confini che lui stesso aveva fissato per le proprie azioni. Il virus ha liberato quei demoni, ed è difficile controllarli.
Di fronte a una minaccia inaudita, cerchiamo rifugio in una difesa straordinaria, come se solo l’inimmaginabile potesse proteggerci, perché l’ordine naturale delle cose è già saltato. Ci vuole di più — diciamo —, ci vuole qualcosa di nuovo e di inedito. Pensandolo, siamo già in uno stato d’emergenza, dove diventa precario tutto il congegno bilanciato tra poteri e garanzie che abbiamo costruito nella modernità, chiamandolo democrazia. Vogliamo andare oltre, cercando proprio qui la soluzione, senza chiederci di che natura è fatto l’universo nuovo in cui stiamo entrando, al buio.
In quel buio, qualcuno ci aspetta.
Il destinatario delle nostre ansie e delle nostre richieste è infatti il potere pubblico, che viene investito da una domanda popolare di urgenza assoluta e di autorità immediata: vale a dire un’aspettativa angosciata di decisioni, frutto di valutazioni del pericolo, interpretazioni della sua natura e della sua portata, soluzioni suggerite o approvate dalla scienza. Il governo si trova così investito di una quota anomala di potestà, una sorta di mandato straordinario.
Per il governo democratico questa investitura è una legittimazione imprevedibile in anni di sfiducia politica generale, e insieme una condanna a rispondere con tempi, rimedi e scelte eccezionali a un’attesa della pubblica opinione che non nasce dalla fiducia, bensì dall’angoscia, dunque è ambivalente. Per la leadership autocratica invece si tratta di un’occasione straordinaria per incamerare proprio l’anormalità di questa delega e trasformarla in forza costituente di un potere di tipo nuovo: passando dal governo al comando.
In molti Paesi sta avvenendo esattamente questo, grazie alle leggi speciali. Nelle mani di leader autoritari, lo stato d’emergenza diventa il contesto politico e sociale ideale per sperimentare misure eccezionali contro i dissidenti, per proibire manifestazioni, per zittire i giornali, per imbavagliare le opposizioni, per controllare le piazze. Davanti a una protesta nei quartieri poveri di Manila per mancanza di cibo, il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte è apparso in televisione per annunciare di aver dato ordine alla polizia e all’esercito di «sparare a morte» su chi viola il lockdown . In Brasile il presidente Jair Bolsonaro ha appoggiato una settimana fa una manifestazione che chiede un ritorno alla dittatura con un colpo di Stato dell’esercito. In Polonia la maggioranza populista ha ridisegnato i collegi elettorali oltre i limiti di tempo previsti dalla Costituzione, ha introdotto il voto per posta che la Corte europea di giustizia giudica pericoloso per la possibilità di brogli, ha messo la magistratura sotto controllo politico. In Ungheria, dove già da tempo sono stati “normalizzati” magistratura, Corte costituzionale e media, Viktor Orbán ha usato il coronavirus per assumere poteri eccezionali senza limiti di tempo, con la possibilità di governare per decreto, senza il voto del Parlamento (che può sciogliere a piacere), con l’unico obbligo di informare il presidente della Casa della Nazione, cioè la Camera, e i capigruppo; in più ha mandato i corpi speciali dell’esercito a presidiare dall’interno le grandi aziende e ha tagliato le entrate dei Comuni, per colpire l’opposizione che si sta coagulando attorno ai sindaci, mentre nuove leggi di censura vietano ogni critica e la riscrittura dei libri di scuola ripropone scrittori antisemiti e cancella le glorie della letteratura magiara come il Nobel Imre Kertész.
L’ Economist ha contato 84 Paesi che hanno adottato leggi eccezionali, e ha denunciato l’opportunità straordinaria che gli autocrati vedono nella tragedia della pandemia, dalla Cina alla Bolivia, alla Guinea, all’Azerbaigian, al Togo, fino alla Giordania, all’Oman, agli Emirati Arabi Uniti e allo Yemen (dove c’è un solo contagiato), che con la scusa dell’infezione hanno messo al bando i giornali di carta. È la realizzazione pratica della dottrina Putin, secondo cui «l’idea liberale è diventata obsoleta, entrando in conflitto con gli interessi della schiacciante maggioranza della popolazione, contraria all’immigrazione, ai confini aperti e al multiculturalismo». Siamo dunque davanti a un esperimento inedito che riguarda anche l’Europa, dove il potere legittimo (perché ha vinto le elezioni) non riconosce i limiti di questa legittimità nell’equilibrio con gli altri poteri ma vuole supremazia, e la cerca attraverso un supplemento di forza: che estrae proprio dall’emergenza pandemica, trasformando il virus in politica, e la tragedia in fonte costituente. L’abuso di potere non viene più celato, ma al contrario è rivendicato ed esibito, nella convinzione putiniana che risponda allo spirito dei tempi. Perché nell’emergenza questa semplificazione governante opera come una rassicurazione, raccoglie l’insofferenza popolare nei confronti delle procedure, delle regole, dei controlli — potremmo dire la fatica della democrazia — e incarna l’alternativa finale alle democrazie esauste, ormai non seducenti perché non più efficienti. La crisi economico-finanziaria dello scorso decennio aveva causato la rivolta del cosiddetto uomo comune che si sentiva espropriato e dimenticato. La crisi del coronavirus arriva dritta al cuore del sistema attaccando infine il meccanismo democratico, con la proposta di un potere nuovo e diverso fondato sull’anomalia come necessità, per costruire una sovranità disuguale e privilegiata, per un nuovo ordine incardinato sull’abuso, la dismisura, l’incoscienza del limite. Il virus è l’elemento di rottura dell’equilibrio, la frattura tra il prima e il dopo, l’agente socio-politico (e non solo patogeno) che tiene il Paese in sollecitazione permanente, portandolo alla temperatura emotiva necessaria per questo passaggio di status verso la post-democrazia. È chiaro che questo quadro sovreccitato, dilatato e sproporzionato è perfetto per essere interpretato dal populismo sovranista, da tempo interessato a far prevalere il potere sul diritto, e a trasformare il potere stesso in arbitrio. Che nome dare alla cosa? Con la «democrazia illiberale» battezzata da Orbán sta prendendo corpo una inedita teoria monocratica dello Stato, con un potere sovraordinato che considera illegittime le interferenze di tutte le potestà concorrenti. Nella teoria politica il potere che fuoriesce dall’equilibrio istituzionale si chiama assolutismo, il potere che cancella i suoi limiti, autoritarismo. Qui siamo. La paura crea l’emergenza: il potere la usa, per deformare i suoi confini. Quando succede, è l’infezione della democrazia.
Fonte: Ezio MAURO | LaStampa.it