Una delle esperienze che stiamo facendo più intensamente in questi giorni è l’esperienza dell’ignoranza. Non sappiamo quanti siano realmente i contagiati dal virus (l’aggiornamento del numero degli infettati comunicato nelle conferenze stampa serali è una scena del teatro dell’assurdo). Non sappiamo quanto possa durare l’immunità di un contagiato guarito. Di conseguenza non sappiamo se potrà mai esistere una cosa come l’”immunità di gregge”. Non sappiamo perché l’Europa dell’Est sia così poco colpita rispetto all’Europa dell’Ovest, perché la mortalità in Germania sia tanto più bassa di quella degli altri paesi dell’Europa occidentale, perché paesi vicini e simili come Spagna e Portogallo abbiano andamenti tanto diversi. Non sappiamo quanto gravi saranno le conseguenze economiche e che ne sarà dell’intero sistema da oggi a tre, sei, dodici mesi. Non sappiamo come si è originato il virus, come sia avvenuto il passaggio dall’animale all’uomo, e dove e come. Non sappiamo se le concentrazioni di particolato fine (pm10) facilitano la trasmissione del virus o se è solo allarmismo, non sappiamo se i cambi di stagione e l’aumento delle temperature lo indeboliranno oppure no. Non sappiamo quando avremo un vaccino e se dovrà essere ripetuto ogni anno oppure non avrà bisogno di molti richiami; anzi, non siamo nemmeno certi se sarà possibile avere un vaccino. Non sappiamo guarire i contagiati, al di là di somministrare ossigeno e anticoagulanti e sperare che ce la facciano. Non sappiamo se i regimi di quarantena stretta siano stati la scelta di contenimento migliore che si poteva fare (tanti si sono infettati e si stanno infettando stando a casa). E per finire, a parte coloro che si sono ammalati, nessuno di noi sa se è stato contagiato oppure no, e se in questo momento è contagioso oppure no. Nemmeno quei pochi che hanno fatto il tampone e sono risultati negativi possono essere certi di non essersi nel frattempo infettati. Ignoriamo tutto.
Una delle più solide certezze del nostro secolo – e cioè che noi la sappiamo molto più lunga dei nostri antenati, che noi siamo la generazione più sapiente della storia – è scossa nel profondo. Due secoli scarsi di positivismo e neopositivismo, da Saint-Simon e Comte a Richard Dawkins, avevano convinto leadership e opinione pubblica che la scienza ha tutte le risposte che contano, che una volta tolte di mezzo le superstizioni a sfondo religioso e rimossi i vincoli etici ad esse collegate il progresso scientifico-tecnologico – cioè la scienza applicata – avrebbe preso la velocità di un missile e la luminosità di un sole gigante che dissolve ogni tenebra pre-illuministica. Oggi assistiamo allo spettacolo di scienziati che ammettono serenamente di non sapere, oppure che dicono il contrario di quello che dicevano uno-due mesi fa, oppure che si azzuffano fra loro come boriosi studenti liceali nell’ora della ricreazione. Anche le cose apparentemente più semplici – stabilire se il virus in circolazione è naturale oppure manipolato – a un certo punto diventano incredibilmente controverse. Lo scontro fra pluripremiati biologi e infettivologi che si smentiscono a vicenda sulla natura del virus getta nello sconforto, ed è paragonabile per assurdità a una lite fra noti linguisti che non riuscissero a mettersi d’accordo se una frase è scritta in latino oppure in greco.
Pensavo a tutto questo ieri mentre rileggevo una pagina di Life is a Miracle di Wendell Berry, lo scrittore, agricoltore, ambientalista cristiano americano di cui in Italia si è tradotto troppo poco. Traduco quello che scrive a pagina 135:
«Dovremmo abbandonare l’idea che questo mondo e la nostra vita umana in esso possano essere condotti dalla scienza a una qualche specie di prevedibilità o meccanica perfezione. Siamo creature la cui intelligenza e il cui sapere non sono invariabilmente pari alle circostanze in cui ci troviamo. I raggi (nel senso geometrico del termine – ndt) del sapere hanno solo respinto – e allargato – la circonferenza del mistero. Viviamo in un mondo famoso per la sua capacità sia di sorprenderci che di deluderci. Siamo inclini a sbagliarci, per ignoranza o per stupidità o intenzionalmente o malevolmente. Una delle cose più strane che ci riguardano è l’interdipendenza delle nostre virtù e delle nostre colpe. Il nostro codice morale dipende tanto dalle nostre mancanze quanto dal nostro sapere. È solo quando ammettiamo la nostra ignoranza che comprendiamo il nostro bisogno della “legge” e dei “profeti”. È solo perché sbagliamo e siamo ignoranti che facciamo promesse, che manteniamo non perché siamo intelligenti, ma perché siamo fedeli».
In tempi come questi, i moniti antipositivisti di Wendell circa l’insuperabile ignoranza umana appaiono più comprensibili e facilmente condivisibili di quando ha cominciato a formularli più di vent’anni fa. Ma l’ultima frase probabilmente suona enigmatica: cosa vuole dire che facciamo promesse perché sbagliamo e siamo ignoranti, e che le manteniamo non in forza della nostra intelligenza ma della capacità di essere fedeli? Vuol dire due cose diverse. Anzitutto vuol dire quello che stiamo vedendo coi nostri occhi e ascoltando con le nostre orecchie: gli scienziati non hanno la soluzione al problema ora, non hanno nemmeno certezze su quello che sta succedendo MA ci dicono che si troverà una cura, che si scoprirà uno o più vaccini, che in ogni caso l’epidemia finirà. Che cosa sono queste se non promesse, che derivano dall’ignoranza del presente e dagli errori fatti? Questo genere di promesse si possono mantenere solo grazie all’intelligenza. È lo stesso genere di promesse fatte dai benefattori dell’umanità che hanno inventato il motore a scoppio, l’energia nucleare o le energie alternative, risolvendo ogni volta il problema dell’energia ma creandone altri: l’inquinamento dell’aria, le scorie nucleari che ci mettono secoli a diventare inerti, il problema dello smaltimento dei pannelli solari o il degrado ambientale creato dalle pale eoliche. «Non abbiamo ancora una soluzione, ma vi promettiamo che la troveremo». Per adesso, però, ogni nuova soluzione si accompagna a nuove promesse, e questo dovrebbe insegnarci qualcosa.
Poi c’è un altro genere di promesse che non sono concepibili senza l’ignoranza. Le promesse di chi dice «sarò il tuo sposo/la tua sposa finché morte non ci separi», «servirò in armi il mio paese anche al prezzo della vita», «figlio, figlia, ti vorrò sempre bene qualunque cosa succeda», «rispetterò la deontologia della mia professione medica, forense, giornalistica, ecc». Questo genere di promesse si mantengono non grazie all’intelligenza, ma grazie alla fedeltà; cioè non grazie alla ragione analitica, ma all’affezione, all’umana capacità di affetto. L’ignoranza è la condizione stessa di questo genere di promesse sotto due aspetti. La prima è che cominciare un matrimonio, esercitare la paternità/maternità, servire nelle forze armate o nelle forze dell’ordine, intraprendere una professione, ecc. non significa avviare processi meccanicisticamente predeterminati: non ci sono leggi della fisica, della chimica, della psicologia ecc. che possano predeterminare l’esito positivo di queste iniziative. Alle controparti del rapporto e alla società si può solo offrire l’impegno personale, la prospettiva della propria dedizione, come pegno della riuscita. Si può solo giurare sul proprio onore. Il secondo aspetto consiste nel fatto che se il potenziale sposo/a, padre/madre, servitore dello Stato, professionista, ecc. avesse a disposizione una grandissima quantità di conoscenze intorno alle persone con cui sta per impegnarsi, intorno a se stesso e intorno allo stile di vita al quale sta per consegnarsi, probabilmente non riuscirebbe più a decidersi oppure rinuncerebbe per paura delle difficoltà a cui saprebbe di andare incontro. Sapere troppo, sapere tutto, renderebbe inagibili i più importanti degli impegni relazionali umani, quelli che creano e che mantengono ogni genere di comunità.
È logico ed è normale che dopo due secoli di positivismo e di neo-positivismo, di grandi successi della scienza e della tecnologia, l’odierna grande rivincita dell’ignoranza provochi smarrimento, delusione, sconforto, rabbia. Quella rabbia che spinge a chiedere la testa del colpevole di tutto questo, perché l’individuazione e punizione dei colpevoli restaurerebbe l’illusione della conoscenza e del controllo perfetti. Ci sono certamente dei colpevoli per negligenza in tutto ciò che è finora accaduto, dallo scoppio dell’epidemia tenuto segreto in Cina ai troppi contagi e decessi nelle case di riposo. Ma la maggior parte di quello che sta accadendo e ancora accadrà dipende dall’ignoranza, e occorre riconoscerlo. Perché peggio dell’ignoranza è la presunzione di chi crede di sapere: farà errori involontari ma disastrosi, e per coprirli ricorrerà alla tecnica del capro espiatorio. L’insegnamento di questa ora deve essere un altro, e deve rappresentare una vera e propria rivoluzione antropologica ed epistemologica (cioè relativa ai limiti della conoscenza scientifica): dobbiamo cominciare ad agire o a trattenerci dall’agire sulla base del principio che quello che non sappiamo è molto più di quello che sappiamo, e che sarà sempre così, per quanto ci spingiamo avanti sulla strada della conoscenza, scientifica o di altro tipo.
Come si applica in concreto questa epistemologia? Certamente dando più importanza al principio di precauzione, cioè evitando di agire quando c’è il fondato timore che le conseguenze di un’applicazione scientifica possano determinare guasti irreversibili. Ma visto che spesso è indispensabile agire anche trovandosi in condizioni di relativa ignoranza, come nel caso attuale che è quello di un’epidemia di una nuova malattia, occorre mettersi tutti nello spirito di chi sa che bisogna assumersi la responsabilità di prendere decisioni che a posteriori potrebbero poi essere giudicate sbagliate.
Occorrerà essere magnanimi con chi ha sbagliato in buona fede; sarà giusto essere severi con chi ha cercato di sfruttare politicamente o economicamente la situazione e con chi è stato troppo arrogante nel rifiutarsi di ascoltare chi formulava considerazioni e proposte diverse dalle sue. L’arroganza sempre si sposa allo schematismo, come sarebbe la decisione di non far uscire da casa per mesi gli ultrasessantenni, e all’errore di proporzioni, come quello di imporre agli esercizi commerciali che vengono riaperti restrizioni che comporterebbero la rovina economica degli stessi. Può darsi che l’approccio che propone Wendell sia un po’ troppo poetico: «Forse la più appropriata e la più naturale risposta al nostro stato di ignoranza», scrive, «non è la fretta di aumentare la quantità di informazione disponibile, o anche di aumentare il sapere, ma un impegno vivace e conviviale con le questioni della forma, dell’eleganza e della gentilezza». Provo a interpretare: si tratta di fare attenzione a non decidere misure che, per schiacciare l’epidemia, finiscano per schiacciare l’uomo.
Fonte: Rodolfo CASADEI | Tempi.it