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Liberi perché figli

Difficile oggi, nel tempo della postlibertà ove tutto è possibile, ritrovare traccia di qualcosa che definisca in termini forti e chiari lo statuto di Figlio. Suggestionati ormai dalle promesse delle biotecnologie riproduttive, abbiamo dimenticato che propriamente la riproduzione della specie umana, ossia di esseri parlanti, si chiama filiazione. L’enfasi della “riproduzione biotecnologica” non assicura alcuna libertà se non quella di produrre un nuovo essere vivente (zoé). La filiazione è invece quel dispositivo che nel corso dei secoli si è premurato di situare il figlio nella condizione di una libertà originaria (bìos): originaria in quanto parlata dalla lingua umana, istituita da un diritto e da un sistema simbolico che possa garantire, in nome della soggettività, un «imperativo della differenziazione» (Pierre Legendre, Filiation, 1997). La riproduzione biotecnologica si occupa semplicemente del corpo, del corpo vivo e vegeto. Nella filiazione invece è in gioco quel processo di umanizzazione per cui un corpo è abitato da pensieri, da una memoria, da una genealogia, da un mito dell’origine. La filiazione esige che ci sia una famiglia, una linea genealogica paterna e una materna. La gestione biopolitica della società oscura la questione del figlio, la sua centralità antropologica, culturale e simbolica, il più delle volte relegandola a una faccenda privata, narcisistica, quasi contrattualistica tra due individui che dovrebbero essere un uomo e una donna. Lo smantellamento biotecnologico del dispositivo della filiazione produce la deriva della famiglia e l’indifferenziazione dello statuto di figlio.

Tre generazioni annodate

Partiamo da lontano. Tra i tanti episodi letterari che evocano lo statuto di figlio e le sue vicissitudini, la fuga da Troia raccontata da Virgilio nell’Eneide è tra i più densi ed emblematici. La città è in fiamme, avvolta da bagliori e clamori. Enea vuole fuggire, mosso dall’idea di fondare un’altra città, Roma. Suo padre, Anchise, vecchio e malato, è deciso a non abbandonare la città, preferisce morire lì dove ha sempre vissuto. Il figlio Enea, sua moglie Creusa, il piccolo figlio Ascanio e tutta la servitù sono disperati. Ma Enea non vuole partire senza il padre. Improvvisamente un prodigio: «Sulla sommità del capo di Iulo (Ascanio) appare un tenue raggio di luce che lambisce la morbida chioma» e subito dopo «un fragore tuonò a sinistra». Il vecchio Anchise, «vinto, si protende verso il cielo e saluta gli dèi». Si rivolge ad Enea: «Ormai non c’è da indugiare; vi seguo, e per dove guidate, vado: dèi patrii, salvate la stirpe, salvate il nipote». Dunque partono. La scena che segue è celebre: Enea con fatica carica sulle spalle suo padre Anchise, stringe per mano il piccolo Ascanio e, seguito a pochi passi dalla sposa Creusa, procede nella notte «per strade segrete». Enea chiede ad Anchise di tenere tra le mani gli «arredi sacri» della famiglia.

Molti pittori, letterati e saggisti si sono soffermati su questa scena emblematica in cui si annodano tre generazioni con le relative permutazioni: Anchise è al contempo padre e nonno, Enea è figlio e padre, Anchise è figlio e nipote. In una sorta di simultaneità ascendenti e discendenti della linea paterna si annodano in un tutt’uno. Non solo: Uno non può fare a meno dell’Altro. Ogni padre è stato figlio e ogni figlio potrà diventare padre. Questa necessità logica diventerà poi nel cristianesimo uno dei cardini della natura del Figlio. «Chi vede me vede il Padre…».

Un’opera unica

Proviamo ora a fare un salto indietro e a chiederci: perché mai il piccolo Ascanio dovrebbe trovarsi in prima linea con il padre e non invece, molto più prudentemente, in seconda linea protetto tra le braccia della madre? Perché Enea vuole così? La risposta, a mio avviso, è evidente: Enea vuole ormai che Ascanio diventi Figlio e non rimanga Bambino.

Una seconda considerazione: se Enea non avesse caricato il padre Anchise sulle spalle, quale libertà avrebbe consegnato al figlio Ascanio? Quale dignità, quale orgoglio, quale identità, quale posto nella genealogia della famiglia? Si sarebbe trattato di semplice sopravvivenza. Sicuramente era in gioco anche questa. Ma Virgilio, per via poetica, descrive una libertà che ha una dignità superiore: una conquista, un progetto, l’attraversamento di un rischio, un atto di libertà in cui risuona l’eco di una soggettivazione fondante.

In definitiva Enea non baratta la sopravvivenza con la libertà; soprattutto non baratta la sopravvivenza del Bambino con la libertà del Figlio. L’auspicata libertà del Figlio è il nome con cui un padre – in questo caso Enea – predispone nella genealogia un posto simbolico da occupare. Come padre combatte affinché quella casella rimanga libera: il Figlio potrà occuparla nel modo che riterrà in base al proprio desiderio e ai propri progetti. Enea non chiede ad Ascanio di diventare anche lui un fondatore di città. Chiede ad Ascanio un’altra cosa: di differenziarsi dalla generazione precedente, di trovare una propria soggettività, di fare della propria esistenza un’opera unica.

Bambini si nasce, Figli si diventa

Qual è dunque la differenza tra Bambino e Figlio? Ogni nuovo essere che nasce giunge al mondo nello statuto di Bambino, di colui cioè che ha bisogno di essere accudito, nutrito, amato da una madre. Il Bambino è da situare, in questa prima fase, essenzialmente dalla parte del desiderio della madre. Occorre pure che il Bambino, per un dato tempo, rimanga nel gioco speculare – affettivo, corporeo e sensoriale – del desiderio materno.

Eppure, ecco il punto, tutto ciò non è sufficiente affinché un Bambino divenga Figlio (E. Scabini e V. Cigoli, in Vita e Pensiero, 2014). Occorre la presenza terza del padre che metta in gioco il funzionamento (come lo chiama Jacques Lacan) della «metafora paterna» che è quel processo che consente al soggetto, situato in una logica edipica, di «tirarsi fuori dal campo del desiderio della madre» (Lacan).

Fonte: Giancarlo RICCI  | Tempi.it

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