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Scienza e fede. Nell’evoluzione il mistero dell’uomo

Il rapporto fra creazione ed evoluzionismo in seno al dialogo fra scienza e fede è spesso stato al centro di interventi di Giovanni Paolo II

Nel secolo XX una delle sfide più grandi alla fede cristiana è venuta dall’evoluzionismo ateo, che esclude Dio dal processo evolutivo della vita ispirandosi a una concezione materialistica dell’uomo. Lo scientismo ha pervaso molti settori della cultura generando ideologie riduzioniste. Il tema dell’evoluzione, se contrapposto a una visione di creazione, diventa un terreno favorevole alle ideologie. Alcuni l’hanno anche definita «la nuova questione galileiana». In campo cattolico questa lettura materialista non è stata solo contrastata, ma ha stimolato sul piano teologico, filosofico e scientifico una riflessione sul rapporto tra scienza e fede che apre la strada a una visione armonica tra i dati e le suggestioni della scienza e l’insegnamento della fede. Giovanni Paolo II si è occupato in varie occasioni di questi problemi affrontando alcuni nodi importanti, così da rendere possibile un dialogo e un’armonia tra la scienza e la riflessione teologica. Premesse e considerazioni importanti circa i rapporti tra scienza e fede erano venute dal Concilio Vaticano II con la Gaudium et Spes e le precisazioni della Dei Verbum sui generi letterari nella Bibbia. Essi si inseriscono nel più ampio quadro del rapporto tra scienza e ragione, sviluppato in seguito nell’enciclica Fides et ratio del 1998.

Sul tema specifico di creazione ed evoluzione si possono riconoscere nel pensiero di Giovanni Paolo II alcuni chiarimenti fondamentali circa tre questioni: gli inizi dell’universo, la teoria evolutiva, l’identità dell’uomo. La teoria del Big Bang per gli inizi dell’universo, proposta negli anni 40 del Novecento dallo scienziato belga Georges Le- maître, un sacerdote gesuita, teoria oggi largamente accettata, viene vista da non pochi come prova della creazione. Giovanni Paolo II in una lettera del 1 giugno 1988 al direttore della Specola Vaticana, padre Georges Coyne, dopo avere richiamato, citando Galilei, il necessario dialogo tra scienza e fede, osserva che il concetto di creazione è filosofico, non appartiene al dominio della scienza, e mette in guardia dalla tentazione di identificare la creazione col Big Bang. Il concetto di creazione non appartiene al dominio della scienza. Esso indica la dipendenza radicale di ciò che esiste da Dio ed esige l’intervento divino all’origine delle cose. Si può ritenere che la creazione si accordi con la teoria del Big Bang, ma il suo concetto è molto più vasto e di altro ordine. Anche il bosone di Higgs, scoperto nel 2012, che ha la capacità di dare massa e collegare le particelle infime della realtà, denominato per questo “particella di Dio”, va visto come metafora dell’interazione tra Dio e la realtà, non come ultima spiegazione della realtà. La distinzione dei piani di conoscenza, che è di ordine epistemologico, resta fondamentale.

Un altro punto importante nel magistero di Giovani Paolo II sul rapporto tra scienza e fede, in tema di evoluzione, riguarda la spiegazione dello sviluppo della vita sulla terra. Quale rapporto tra creazione ed evoluzione della vita? Nel messaggio del 22 ottobre 1996 alla Pontificia Accademia delle scienze Giovanni Paolo II riconosce che sono tante e congruenti le osservazioni provenienti dai vari campi della scienza, per cui l’evoluzione può considerarsi non una mera ipotesi (Pio XII nella Humani generis parlava, appunto, di ipotesi), ma una teoria, o forse si potrebbe parlare di “teorie dell’evoluzione”, per la pluralità delle spiegazioni proposte. In precedenza, anche in altre occasioni, Giovanni Paolo II aveva sfiorato l’argomento del rapporto tra evoluzione e creazione. Nel discorso al Simposio internazionale su fede ed evoluzione (”Osservatore Romano”, 27 aprile 1985) aveva affermato: «Una fede rettamente compresa nella creazione e un insegnamento rettamente inteso dell’evoluzione non creano ostacoli… L’evoluzione infatti presuppone la creazione; la creazione si pone nella luce dell’evoluzione come un avvenimento che si estende nel tempo – come una creatio continua – in cui Dio diventa visibile agli occhi del credente come creatore del cielo e della terra».

Nell’evoluzione il nodo forse più grande è l’uomo. Anch’egli si è evoluto come le altre specie? Dai Primati? E la sua identità spirituale? Come si riconosce nel corso della evoluzione? C’è da ricordare che nel corso del secolo XX non sono mancati filosofi e teologi disponibili ad ammettere l’evoluzione, anche dell’uomo, dopo le grandi aperture di Pierre Teilhard de Chardin: da Bergson a Maritain, a Guitton, da Chenu a Rahner, Haag, De Fraine, De Lubac, Moltmann, Martelet, Marcozzi, Flick, Alszeghy, Ratzinger, Ganoczy, Molari… Un’affermazione importante e chiara di Giovanni Paolo II al questo proposito si trova in un una catechesi tenuta in piazza San Pietro nel 1986 (”Osservatore Romano”, 17 aprile di quell’anno): «Si può dunque dire che dal punto di vista della fede non si vedono difficoltà nello spiegare l’origine dell’uomo, in quanto corpo, mediante l’ipotesi dell’evoluzione… È cioè possibile che il corpo umano, seguendo l’ordine impresso dal Creatore nelle energie della vita sia stato gradatamente preparato nelle forme di esseri viventi antecedenti. L’anima umana però da cui dipende in definitiva l’umanità dell’uomo, essendo spirituale, non può essere emersa dalla materia».

Un’osservazione non nuova, perché nella sostanza risale a Pio XII, alla Humani generis, in cui si afferma che anche in una ipotesi evoluzionista si deve ritenere «la creazione speciale dell’anima da parte di Dio». Ma la riflessione di Giovanni Paolo II appare più articolata. Questa considerazione sta alla base del concetto di «salto ontologico» che Giovanni Paolo affermò nel già citato messaggio del 22 ottobre 1996 alla Pontificia Accademia delle scienze, che in due parole definisce una discontinuità evolutiva la specificità dell’essere umano, arricchito dallo spirito. Questo concetto rappresenta una precisazione importante, pur lasciando interrogativi sul quando e sul come il passaggio sia avvenuto. Sul piano empirico possiamo cercare i segni di questo passaggio nella documentazione di comportamenti che denotano una discontinuità: i comportamenti progettuali e innovativi, con significato, e quindi a carattere simbolico, in una parola le espressioni della cultura. Ma qui si apre il campo alle interpretazioni degli studiosi che hanno inevitabilmente qualche carattere di soggettività, almeno fino a quando le manifestazioni della cultura sono tali da non lasciare dubbi. Certamente col tempo le discontinuità rispetto alle precedenti forme non umane, si fanno più evidenti. Molti autori propendono a riconoscere la discontinuità in Homo habilis di due milioni di anni fa, artefice della cultura olduvaiana, e ancora di più in Homo erectus (Homo ergaster) che realizzava utensili bifacciali.

Ma non si deve dimenticare che il tema dell’identità umana resta fondamentale anche nella generazione di ogni uomo. C’è una discontinuità ontologica tra la struttura biologica e lo spirito in ogni essere umano che si forma, anche se strettamente intrecciati nell’unità della persona. La discontinuità è colmata da Dio con l’animazione nel grembo materno. Ogni essere umano è tale perché arricchito dallo spirito che lo rende intelligente e libero, capace di rapportarsi col suo Creatore.

Fonte: Fiorenzo Facchini | Avvenire.it

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