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L’equivoco del dialogo

Gesù non dialoga con il diavolo, ha ricordato Francesco in una recente catechesi. Non conoscono la storia pontificia i settori ultratradionalisti che accusano strumentalmente papa Bergoglio di confrontarsi con chi è su posizioni ideali e valoriali lontane da quelle della Chiesa. Il dialogo nasce da salde radici. La Giornata mondiale di preghiera per la pace (onorata il 27 ottobre 1986 dalla sospensione delle guerre in tutto il mondo, non una sola vittima) fu certamente l’iniziativa più audace, più coraggiosa, più “nuova” di Giovanni Paolo II, ma anche la più contestata. Lo stesso Wojtyla, seppure in tono scherzoso, raccontò di come “per poco non lo scomunicassero“. Alcuni cardinali e non pochi curiali protestarono per il presunto sincretismo, per l’aver messo le religioni tutte sullo stesso piano. Ma non era stato così. Invece, quella Giornata rappresentò come uno spartiacque nella storia dei rapporti tra le religioni, dopo secoli di divisioni, di contrasti, di incomprensioni. Poi, venne l’ “inverno”.  Crollò il Muro, ma, per certi aspetti, successe il caos. Ci fu una tale ubriacatura di libertà che finì per svilire il grande bene appena riconquistato. Spuntarono i nazionalismi, portando allo scoperto antichi rancori etnici, culturali e religiosi. Nei Balcani ricominciò la guerra, una guerra fratricida. La Chiesa cattolica dovette affrontare nuove controversie con l’Ucraina e la Romania (per la questione degli “uniati”, ossia gli orientali legati a Roma), con Mosca (per aver riorganizzato la gerarchia ecclesiastica nell’ex Urss) e con la Chiesa anglicana (che aveva ammesso le donne al sacerdozio).  Intanto, in Africa e in Asia si espandeva l’islam fondamentalista, con gravissime ripercussioni sulle minoranze cristiane. Fu allora che venne fuori la grandezza di Giovanni Paolo II come leader spirituale. Venne fuori l’incredibile tenacia, con la quale il Papa cercò di tenere unite le fila di quella comunione tra le religioni che Assisi aveva aiutato a riscoprire. Anzi, fece ancora di più. Nella lettera enciclica Ut Unum Sint, dichiarò la propria disponibilità a un “dialogo fraterno” con gli altri cristiani, per trovare una nuova forma di esercizio del ministero petrino, affinché tornasse a essere, come alle origini, fattore di unità. Papa Wojtyla, nella sua missione, non si fermò neppure di fronte alle offese, ai rifiuti. Andò in terre luterane e calviniste, a ripetere umilmente i “mea culpa” della Chiesa cattolica; e ci furono dei vescovi luterani, in Norvegia e in Danimarca, che disertarono gli incontri di preghiera. Il Papa andò nei Paesi ortodossi, come in Romania, dove, all’iniziale ostilità, rispose quel grido esploso in mezzo al popolo: “Unitade! Unitade!”, e c’erano insieme ortodossi, cattolici, protestanti evangelici. Non si tenne, per il Giubileo del 2000, l’incontro pancristiano a Gerusalemme. Ma, in compenso, ci fu quella straordinaria immagine ecumenica a Roma, nella basilica di San Paolo. C’erano sei mani a spingere, per aprire la Porta santa. Le mani del Papa e, per “aiutarlo”, le mani del primate anglicano, Carey, e dell’inviato ortodosso di Costantinopoli, il metropolita Athanasios. Poi, insieme, attraversarono la soglia, e, insieme, entrarono nella chiesa che, dedicata all’Apostolo delle Genti, è quella ecumenica per eccellenza. Era stato Giovanni Paolo II a volerlo, come “segno” di grande significato, e di grande speranza, per il cammino verso l’unità cristiana.

Cambia il cantante, non la canzone nel passaggio da Wojtyla a Ratzinger. E’ utile, perciò,contestualizzare le due correnti che polarizzano il cattolicesimo dal Concilio Vaticano II in poi: chi vorrebbe una Chiesa tutta carità, quasi una Ong della solidarietà globale e chi invece delimita la missione ecclesiastica al recinto sacro di dogmi, sacramenti, liturgia e riti. Anche da questa contrapposizione di visioni deriva l’errata interpretazione di una figura fondamentale come quella di Joseph Ratzinger in termini di esclusiva attenzione al piano spirituale senza e di scarsa sollecitudine per le questioni sociali. In realtà Benedetto XVI scelse una “terza via” per incidere con la fede nel mondo senza piegarsi ad esso né scendere a compromessi con le utilitaristiche logiche mondane della contemporaneità secolarizzata. Joseph Ratzinger si occupò di “politica” in senso alto del termine, nella convinzione che toccasse ai cattolici non far diventare lettera morta il Vangelo, testimoniandolo nella quotidianità della vita privata e di quella pubblica. L’enciclica Caritas in veritate parla dall’inizio alla fine di amore, di verità, di senso di responsabilità. Un invito a concentrarsi sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità. Secondo Joseph Ratzinger si tratta di compiere un’opera di apertura e di discernimento: “L’umanità deve ormai uscire da ottiche troppo anguste per gettare le basi di una nuova sintesi umanistica”. Collocarsi in una simile prospettiva significa per Benedetto XVI “non escludere nessuno a priori e invocare la necessità di un dialogo senza frontiere”. Ciò conferma la validità e l’assoluta coerenza di quanto insegnato da Papa Francesco: “Gesù non dialoga con il Diavolo, né con la tentazione. Risponde al Diavolo con la parola di Dio. Mai dialogare con la tentazione. Mai dialogare con il Diavolo“.

Fonte: Giacomo GALEAZZI | InTerris.it

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