La prima preoccupazione deriva dal fatto che la debolezza demografica endogena ha potuto diffondersi come un virus senza alcun contrasto efficace nei decenni scorsi. Nel recente passato si è, anzi, assistito a una pervicace inclinazione verso lo scenario peggiore. Nel 2011 l’Istat prevedeva per il 2019 un numero medio di figli per donna attorno a 1,45, che poteva scendere a 1,38 nell’ipotesi più bassa. Il dato effettivo è stato pari a 1,29, quindi notevolmente inferiore anche rispetto allo scenario più negativo. In valore assoluto le nascite sono precipitate da oltre 560mila nel 2010 a circa 435mila nel 2019. Era difficile riuscire a fare peggio. E infatti l’Istat riteneva altamente improbabile precipitare così in basso: nel delineare l’evoluzione dal 2011 al 2065 affermava che, considerate le ipotesi più attendibili, «le nascite non scenderebbero mai sotto la soglia delle 500 mila unità». Anche per le proiezioni più recenti (base 2018) si è osservata una deviazione della realtà osservata verso lo scenario peggiore. Aggiornare le previsioni al ribasso e trovarsi poi con valori ancor più negativi rispetto a quelli attesi è il percorso seguito dal Paese nel decennio scorso, fino all’entrata nell’emergenza sanitaria.
La seconda preoccupazione riguarda le conseguenze della pandemia che vanno ad aggravare drammaticamente questo quadro. In particolare, tutti i fattori che agivano negativamente sulla natalità si sono inaspriti – come documentato nell’ultima relazione annuale di Bankitalia – nella prima metà del 2020: la fragile posizione lavorativa delle nuove generazioni, le complicazioni nella gestione tra tempi di vita e di lavoro, la condizione economica delle giovani famiglie.
Ma tutto questo fa ormai parte del percorso che ci ha portato sin qui e della situazione che ci è data. Nel guardare oltre ci si confronta però con la terza preoccupazione: la sottovalutazione della questione demografica nei piani di ripartenza. La demografia fornisce l’infrastruttura umana del Paese. Possiamo avere i progetti più ambizioni del mondo, ma se poi li caliamo su una impalcatura debole, saranno fatalmente destinati a crollarci addosso. Difficile però trovarne un riconoscimento solido e acquisito nel dibattito pubblico italiano.
Eppure i dati forniscono chiara evidenza della situazione in cui ci siamo collocati e delle prospettive che abbiamo di fronte. Uno degli indicatori guardati con più attenzione dalle economie mature di questo secolo è il rapporto tra la componente anziana e quella in età lavorativa. Più aumenta tale indicatore e più si riduce la capacità di produrre ricchezza rispetto ai costi (soprattutto previdenziali e sanitari) dell’invecchiamento della popolazione. Se consideriamo il rapporto tra chi ha 65 anni e più rispetto a chi è tra i 25 e i 64 anni, secondo i dati della Nazioni Unite risulta pari al 35% in Europa contro meno del 10% dell’Africa. L’Italia è già oltre il 40% ed entro il 2050 è prevista salire oltre l’80% (o ancor più in alto se la fecondità tendesse ulteriormente a diminuire), consolidandosi nelle posizioni più scomode nel contesto globale. Questo significa, come ha avvertito il report dell’Ocse “Working Better with Age”, rendere molto verosimile che si arrivi di fatto a un rapporto 1 a 1 tra pensionati e lavoratori italiani. Tale scenario è incompatibile con ogni possibilità di crescita competitiva e inclusiva e ci condannerebbe a gestire il declino in un Paese sempre più vecchio e povero.
Il presidente del Consiglio Conte, nella conferenza stampa di presentazione del decreto Rilancio ha affermato che subito dopo l’uscita dall’emergenza si passerà a investire «sull’Italia che vogliamo», con un chiaro progetto politico per renderla «più verde, più digitale, più inclusiva». Non si può che condividere, ma andrebbe anche esplicitamente riconosciuto che nel nostro Paese le basi per tale progetto sono fortemente minate dalla prospettiva del continuo aggravarsi degli squilibri demografici. Nulla è sostenibile se non poggia su una adeguata struttura demografica. Su questo punto non passiamo permetterci di passare dal non fare nulla al far finta di nulla. Sarebbe la peggior colpa verso la Next generation italiana, in nome della quale siamo chiamati oggi a fare le scelte migliori a partire da come utilizzare il Recovery Fund.
Fonte: Alessandro ROSINA | IlSole24Ore.com