Il buco nero
L’epilogo della cronaca giornalistica sull’agonia e morte di Alfredino fu pronunciata dal giornalista del TG2 Giancarlo Santalmassi al termine dell’edizione straordinaria del 13 giugno 1981:
Volevamo vedere un fatto di vita, e abbiamo visto un fatto di morte. Ci siamo arresi, abbiamo continuato fino all’ultimo. Ci domanderemo a lungo prossimamente a cosa è servito tutto questo, che cosa abbiamo voluto dimenticare, che cosa ci dovremmo ricordare, che cosa dovremo amare, che cosa dobbiamo odiare. È stata la registrazione di una sconfitta, purtroppo: 60 ore di lotta invano per Alfredo Rampi.
Il senso di tutto è qui, c’è poco da aggiungere. E tra tutte le parole, ancora più di morte e sconfitta, quella in cui si percepisce un grido disperato è «invano». Le energie migliori, le speranze e le preghiere di tutti, l’intraprendenza e il coraggio dei singoli, l’abnegazione e la fatica, davvero tutto il meglio che l’uomo può tirar fuori finisce in nulla? Che ombra getta una morte innocente sulla tensione umana a salvare, a rimediare agli incidenti del caso? È proprio il contrario di «invano» che si scopre stando -metaforicamente – a un passo da quel buco nero. Proprio l’evidenza che questo tragico fatto di cronaca sia ancora vivo nella memoria ci segnala che la piccola vita di Alfredino, la sua sofferenza e morte misteriosamente ingiuste, ha tanto da dirci ed è feconda di una riflessione per nulla vana.
A posteriori ci si accorse che l’evento che rese per sempre celebre il paese di Vermicino accadde in una congiuntura storica drammatica e piena di voragini aperte per il nostro paese. L’estate precedente, nel 1980, fu segnata dalla tragedia di Ustica e dell’attentato alla stazione di Bologna e solo un mese esatto prima della morte del piccolo Rampi l’Italia intera aveva assistito in diretta all’attentato a Papa Giovanni Paolo II per mano del terrorista turco Ali Agca. Molto ribolliva e c’erano molte mani insanguinate a segnare il quadro macroscopico della storia italiana. E in mezzo a queste conflittualità esacerbate e violenze consapevoli, un bambino come tanti – figlio di tutti – cadde in un pozzo; il suo rantolo e poi il suo silenzio insegnarono che il cuore solerte dell’uomo non si era spento sotto chili di peccati consapevoli. Invano non fu se per 60 ore consecutive tutta la nazione pianse e sentì che è infinitamente più caparbia la forza che ci spinge a tendere la mano, piuttosto che l’istinto di distruzione e vendetta.
A testa in giù
Il 10 giugno del 1981 verso le 19 il padre di Alfredino Rampi acconsentì alla richiesta del figlio di 6 anni che voleva tornare a casa da solo; era un piccolo tragitto. Tra il saluto al padre e la casa ci fu la caduta nel pozzo artesiano, largo 28 cm e profondo 80 metri. Il bambino rimase incastrato a 36 metri di profondità. I soccorsi arrivarono alle 21.30 e da quel momento in poi la cronaca degli eventi andò in diretta televisiva nazionale. Struggente la presenza di mamma e papà vicino a quella fessura nel terreno, altrettanto doloroso quel primo tentativo fallito di salvarlo calando una tavoletta di legno. Anche la soluzione di creare un tunnel parallelo al pozzo non fu risolutiva e anzi fece sprofondare ancora di più il bambino. A posteriori esplosero polemiche e accuse sulla disorganizzazione, ma in quei momenti concitati l’immagine nitida era quella, paradossale, di una folla umana protesa verso un bambino la cui presa sfuggiva alle mani di tutti.
Sfuggì anche alle mani di Angelo Licheri, l’altra presenza significativa che arrivò spontaneamente a Vermicino, deciso a volersi calare nel pozzo per tirar su il bambino. Licheri aveva la corporatura esile, giusta per potersi infilare in quella strettoia scavata nella terra. Non aveva nessun legame con la famiglia Rampi, era a casa e sentendo la notizia capì che era suo compito dare una mano. Ha raccontato la sua storia molte volte, ricordando:
Ho sentito questo bisogno, questa necessità di lasciare tutto e anche non pensare che avevo già dei bambini, non pensare che avevo una moglie, ma pensare solamente a un bambino che aveva bisogno di me. (da Tv2000)
Calato a testa in giù e legato per i piedi Angelo Licheri rimase 45 minuti nel buco nero, un caldo asfissiante e pieno di fango, toccò Alfredino, escogitò il possibile, fece vari tentativi e non riuscì. Il fango impedì che la presa, pur forte, tenesse. Licheri riemerse alla luce senza aver strappato alle viscere della terra il piccolo, capì che stava morendo. Quando le telecamere si spensero annunciando il finale temuto e scongiurato da tutti, la scena non fu abbandonata. Anzi, le operazioni che seguirono per recuperare il cadavere furono lunghe: dopo settimane di lavori ininterrotti il corpo del bambino fu recuperato da Torello Martinozzi, caposervizio minatori di Gavorrano, ed era l’11 luglio.
Ripercorrere, anche solo sommariamente, la cronologia dei fatti fa riflettere su quanto questa storia, come tantissime altre, sia un controcanto della Via Crucis. O meglio, che Chi patì sul Calvario è compagno di tutti i nostri calvari. E quella presa sfuggente di mani che vorrebbero salvare, ma non riescono, ci ricorda quel dato duro e assoluto che pure è l’inizio di una storia non tragica: l’umano non conosce la via d’uscita dal sepolcro. Alfredino è il Venerdì Santo di tutti noi, quella frontiera oltre cui abbiamo bisogno di mani più grandi delle nostre per essere tolti al buio.
A chi mai dentro di sé il Vuoto misurò
C’è una canzone dei Baustelle dedicata ad Alfredino che osa rovesciare il punto di vista, immaginando che gli ultimi pensieri del bimbo siano una preghiera. Ascoltandola, ho avuto l’impressione che il fondo di quel pozzo fosse già una salita al cielo. Ecco il testo della canzone:
Un pezzetto bello tondo di cielo d’estate sta sopra di me. Non ci credo. Lo vedo restringersi. Conto le stelle. Ora. Sento tutte queste voci. Tutta questa gente ha già capito che ho sbagliato. Sono scivolato. Son caduto dentro il buco. Bravi, son venuti subito. Son stato stupido. Ma sono qua gli aiuti. Quelli dei pompieri. I carabinieri. Intanto Dio guardava il Figlio Suo. E in onda lo mandò. A Woytjla e alla P2. A tutti lo indicò. A Cossiga e alla Dc. A BR e Platini. A Repubblica e alla Rai. La morte ricordò. Scivolo nel fango gelido. Il cielo è un punto. Non lo vedo più. L’Uomo Ragno mi ha tirato un polso. Si è spezzato l’osso. Ora. Dormo oppure sto sognando, perché parlo ma la voce non è mia. Dico Ave Maria. Che bimbo stupido. Piena di grazia. Mamma. Padre Nostro. Con la terra in bocca. Non respiro. La tua volontà sia fatta. Non ricordo bene. Ho paura. Sei nei cieli. E Lui guardava il Figlio Suo. In diretta lo mandò. A Woytila e alla P2. A tutti lo mostrò. A Forlani e alla Dc. A Pertini e Platini. A chi mai dentro di sé il Vuoto misurò. (qui la canzone)
Fa male guardare il nostro vuoto profondo, quella mancanza radicale che ci segna, e di cui la storia di Alfredino è specchio. Chi ci strappa dal buio? Non tutta la nostra buona volontà. Non la forza, non i nostri meriti. E qualunque uomo a questo punto può giacere inerte e disperato sul limite estremo del pozzo nero, in cui tutti sprofondiamo ed è irraggiungibile da mani umane, oppure affacciarsi all’ipotesi che tutto ribalta: Dio è sceso in quel buio, ha patito fino in fondo da uomo come noi ed è lì per sempre, compagno dentro le nostre voragini, ad accompagnarci fuori, a salvarci.
Fonte: Aleteia.org