La stanza dei figli
La pandemia ci ha fatto fare i conti con l’incubo del morire da soli, le parole di Enrico Petrillo sono puntuali nel togliere ogni ombra da questo spettro terribile. Certo, Chiara morì a casa, circondata dai suoi cari da suoi cari e dunque non era fisicamente sola. Ma il compagno più vicino e presente che aveva è quello che a nessuno può essere tolto, Dio. Enrico ricorda uno scambio avuto con la moglie proprio la mattina del giorno in cui morì:
Era quella mattina quando ho trovato Chiara in preghiera, assorta davanti al Tabernacolo. Chiara era qui sulla sua sedia a rotelle e stava pregando e io avevo nel cuore quel tormento santo di quella frase del Vangelo che ci dice che il Signore dona un giogo dolce e un carico leggero, ma in quel momento quella dolcezza non la vedevo. Vedendo mia moglie che moriva, ovviamente non la trovavo [quella dolcezza – Ndr] e mi chiedevo: “Ma Signore come puoi dirmi che questa Croce è dolce?”. Allora ho avuto la sfrontatezza di chiederlo a Chiara; mentre stava pregando le ho chiesto: “Chiara, ma veramente è dolce ‘sta Croce come dice Gesù?”. E lei con un filo di voce mi ha sorriso e mi ha detto: “Sì, Enrico, è molto dolce”.
Chiara è morta felice, i suoi familiari lo hanno ripetuto più volte ma la frase suona sempre dirompente e forte. Guardando la sua stanza semplice, alle spalle del marito che parla, s’intravede una presenza di bene, piena di ragioni nel dire ciò che agli occhi del mondo sembra assurdo. Come si muore felici? Non significa che la sofferenza sparisce, ma che tutto cambia se la stanza del dolore è luogo di una relazione viva. Si muore felici se si muore da figli.
Questo è il nodo da sciogliere. Ognuno ha la propria stanza del dolore, in cui la prova è vissuta in una solitudine in cui anche chi ci ama ed è vicinissimo non può entrare. In questo senso è vero che si muore soli, ma soli significa o abbandonati alla disperazione o legati all’unico rapporto che ci tiene in vita sempre. Se nella stanza del nostro dolore viviamo, intensifichiamo e nutriamo la certezza di essere Figli di Dio, allora quel luogo è uno spazio abitato e un ingresso privilegiato verso l’abbraccio di un Padre che accompagna all’eternità:
Tutti i figli muoiono così. Sanno che c’è un Padre che li aspetta e che gli darà la Grazia di vivere quel giorno unico, in cui finalmente apri gli occhi al Cielo.
Non è un privilegio delle anime sante come Chiara, è una possibilità aperta a tutti; su questo Enrico Petrillo è deciso a incalzare chi ascolta. Anzi, per vederla dal punto di vista giusto: è ciò che Dio aspetta con ardore. Ieri la liturgia della domenica ci ha proposto nella Prima lettura un passo tosto del Deuteronomio in cui si dice che Dio «ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore»: il momento della prova, visto dallo sguardo paterno di Dio, non è mai una sfida distruttiva, ma il culmine di un’attesa. Cosa c’è nel tuo cuore? Quello che lo riempie può soddisfarti davvero? Il nostro cuore, così pieno di slanci grandi e tentazioni pessime, è la stanza in cui Dio vuole essere ospitato, per riempirla completamente di una pace che lenisce ogni ferita.
Dio non toglie, dona molto di più
La mattina del 13 giugno 2012 Chiara Corbella era nella sua stanza a pregare davanti al Tabernacolo, stava in compagnia di chi di lì a poco le ha aperto le porte del Cielo. I suoi familiari ci hanno abituati a guardare a quel giorno proprio come al momento di una nascita al Cielo e non è un’espressione usata per aggirare la durezza che impone la parola morte. Oggi Enrico Petrillo lavora vicino a malati in stato neurovegetativo, ancora una volta a tu per tu con il limite che ha visto inciso nel corpo di sua moglie (e anche nelle vite brevissime e compiute dei suoi figli Maria Letizia e Davide Giovanni).
Proprio osservare da vicino la pochezza che è la nostra parte creaturale, fragile e che si spegne, esige di essere autentici di fronte a ciò che si vede:
Se ci fermiamo a un’apparenza, quel corpo sul letto, malato è un corpo sul letto, malato. Ma se andiamo oltre a quest’apparenza, a questa verità, ce n’è un’altra più profonda: quel corpo è un figlio di Dio e non c’è nessuno stato di malattia che toglierà quell’identità a quel corpo, a quella persona. È un figlio di Dio ed è possibile sempre essere in relazione con il Padre, perché tu sei una creatura, sei figlio.
La verità della nostra mortalità, incontrandosi con l’altra verità di essere Figli di Dio, genera quel paradosso sensatissimo, che pure fa tremare, di cui Chiara lasciò testimonianza scritta al figlio Francesco: «Se Dio toglie è per donare molto di più». Il perno della nostra identità sta tutto nel decidere se siamo figli oppure no, se siamo in relazione con Chi fa il mondo oppure no. È questa relazione a far saltare i nostri miseri criteri, a sostenere parole che parlano di un di più di vita quando il corpo si spegne.
Fonte: Annalisa TEGGI | Aleteia.org