«Io vi chiedo di non approvare una legge che compie la più grave discriminazione che gli stessi attivisti Lgbt per anni si sono battuti per eliminare»
Agli onorevoli deputati,
mi chiamo Giorgio Ponte, ho 36 anni, sono uno scrittore, un insegnante e sono anche una persona con attrazione omosessuale.
Non sono un giurista, e tuttavia ho deciso di dare il mio contributo sul DDL Scalfarotto/Zan per il reato di omofobia, essendo direttamente coinvolto dal suo contenuto. Ho creduto infatti che ascoltare la storia di una persona che questa condizione la vive, potesse aiutarvi nel decidere se tale norma custodisca un reale bene, non solo per le persone omosessuali, ma per la società intera. Poiché, ve lo anticipo, per l’esperienza mia e di molti come me, essa rischierebbe di essere più un danno che una tutela. Tuttavia prima di decidere se quanto dico abbia senso, vi prego di avere la pazienza di arrivare fino in fondo a questa lettera e alla mia storia, per capirne le ragioni.
Sono nato in una famiglia del sud, ultimo di quattro figli molto più grandi di me. I miei genitori hanno amato sia me che i miei fratelli di un amore totale e incondizionato, e tuttavia nel farlo non hanno potuto prescindere dalle ferite che loro stessi si portavano dietro e dai molti contraccolpi che la vita aveva loro inferto.
Il desiderio disperato di figure maschili con cui identificarmi e che mi dessero un’attenzione che non trovavo in casa per come avrei voluto, mi fece presto sviluppare una confusione sul mio genere di appartenenza, seguita poi da una forte attrazione per gli uomini. Ero un bambino molto solo e perennemente insicuro: abituato a stare con adulti, avevo imparato a parlare come loro, rendendomi un alieno rispetto ai miei coetanei.
Qualcuno oggi direbbe che fui vittima di omofobia. La verità è che appartenevo solo all’immensa schiera di ragazzini fragili che da sempre a scuola vengono bullizzati da altri più fragili di loro: ciccione, secchione, con gli occhiali, l’apparecchio, scarso nello sport… la mia storia non è diversa da quella di tanti altri che mi hanno preceduto e seguito. E come molti di loro, era solo questione di tempo prima che qualcuno fuori di casa si approfittasse di tutto questo.
Dagli undici ai quattordici anni fui vittima di abusi da parte di uomini più grandi, molto più grandi di me, per diverse volte e su diversi mezzi che mi portavano a scuola. Per anni ho portato il peso di quegli episodi, dei quali mi sentivo corresponsabile per la mia attrazione omosessuale. Una cosa che ho poi scoperto essere comune in molte storie di abusi.
Se vi racconto queste cose non è per suscitare in voi sentimenti di commiserazione o pietà, ma solo per dirvi che io so cosa sono violenza, dolore e prevaricazione. Ed è proprio perché so che tipo di meccanismi generino, che non credo che una legge contro l’omofobia faccia il bene di chi le ha subite. Ma per capire il perché, vi prego ancora di sospendere il giudizio e continuare a leggere.
All’inizio la tentazione fu di riversare la mia rabbia su tutti, usandoli a mio piacimento, solo in virtù del fatto che io avevo sofferto più di loro (così pensavo), e questo mi rendeva diverso. In un certo senso mi rendeva persino migliore.
Un sentimento questo che riconosco amplificato e moltiplicato nei movimenti gay, dove le ferite dei singoli si sommano diventando ferite di una collettività, e tutti ci si muove alla ricerca di un capro espiatorio che paghi per il male che qualcuno ci ha fatto quando eravamo bambini o adolescenti, e che non appaga mai quel desiderio di riscatto che alla lunga diventa desiderio di vendetta, poiché la ferita da cui esso è generato rimane scoperta e sanguinante.
Anche io vivevo così: io, e io solo, avevo il diritto di pretendere, di arrabbiarmi, di lamentarmi. E soprattutto il diritto di arrendermi.
Diventai egoista e prevaricatore. Ma ciò che era peggio, avevo fatto di me un fallito. Continuavo senza accorgermene ad autosabotarmi in tutto ciò che facevo per confermare quell’immagine di bambino abusato, solo e triste, vittima della vita e per questo autorizzato a non vivere. Come se non bastasse, quei primi abusi subiti, innestandosi sul mio bisogno di amore, mi avevano inconsciamente “insegnato” che se volevo ricevere attenzione e affetto da un uomo, il sesso era l’unica modalità per averli.
Non conoscevo l’amicizia. Soprattutto non sapevo cosa fosse l’amicizia con gli altri uomini, terrorizzato com’ero da loro, per quelle prime esperienze subite e per il ricordo dei miei compagni di quand’ero bambino, mai abbastanza maturi per accorgersi di me e del mio dolore.
Mi stavo destinando all’infelicità, permettendo così ai miei carnefici di continuare a condizionare la mia vita, anche molti anni dopo che essi non c’erano più.
Finché a un certo punto qualcuno si accorse di quel dolore e seppe prendersene cura. Ed è a causa di questo evento che oggi io vi chiedo di non approvare una legge sull’omofobia. Ciò che allora accadde a me infatti, se una legge simile passasse, adesso non sarebbe più possibile per altri.
In un’epoca in cui, seppur a fatica, si potevano ascoltare pluralità di voci diverse su questi temi e non era ancora di moda dire che ogni cosa che si prova va assecondata, qualcuno invece di imprigionarmi dietro a un pietoso “poverino”, ha provato a entrare con me nel mio dolore, nella mia storia e si è chiesto perché provassi ciò che provavo, partendo dal presupposto che nessun desiderio è in sé una colpa, ma esso è importante perché dice qualcosa su di noi.
Quel qualcuno è stato la Chiesa. Attraverso uomini e donne che hanno avuto per me sufficiente amore da non permettermi di piangermi addosso, reputandomi all’altezza dell’esistenza e scuotendomi dal mio vittimismo. La Chiesa mi ha reso un uomo, nel senso più profondo del termine: non perché eterosessuale, ma perché di nuovo protagonista della mia vita.
Io ero degno di attenzione e rispetto quanto gli altri, ma non di più.
Quella tanto auspicata “uguaglianza” di cui i movimenti LGBT si erano sempre fatti sostenitori a parole, io la stavo vivendo grazie alla prima Istituzione che ai loro occhi avrebbe dovuto odiarmi. Non ci furono forzature, né richieste di “cambiamento” (dell’orientamento, s’intende. Perché l’atteggiamento nei confronti della vita, quello sì doveva cambiare, se volevo essere felice!); non ci furono nemmeno buonismi e facilitazioni: io ero uomo come gli altri e ciò che era chiesto a me era ciò che è chiesto ad ogni singolo uomo sulla faccia della terra, dalla sua Chiesa, come dalla vita.
E così faticosamente ricominciai a vivere, a sperare, a gioire, a godere delle cose. Mi fu restituito ciò che pensavo fosse perduto: il rapporto con mio padre, amici maschi che mi amassero in profondità, la consapevolezza dalla mia forza. E sopra ogni cosa la responsabilità della mia vita.
Non diverso da com’ero, ma al meglio di ciò che potevo essere, perché cosciente del significato che aveva la mia omosessualità nella mia storia: non un’identità, ma una piccola parte di me; il segno di una ferita che parlava di un bisogno legittimo del mio cuore.
Desideravo essere riconosciuto e amato dagli altri uomini, non più attraverso il sesso, ma nella libertà che non cerca di possedere l’altro. E finalmente qualcuno mi stava permettendo di fare esperienza di quell’amore.
Bene, direte voi, buon per te, ma cosa ha a che fare questo con la legge sulle discriminazioni contro le persone omosessuali? Molto in effetti.
Perché vedete, onorevoli deputati, se una legge contro il reato di omofobia dovesse passare, da domani tutto questo non sarebbe più possibile né raccontarlo, né tantomeno viverlo. Per nessuno. Poiché per intraprendere un cammino del genere, io sono dovuto partire dalla consapevolezza che la mia omosessualità non fosse innata, e questo è uno di quei concetti che sempre più vengono messi al bando a livello mondiale, bollati come omofobi, appunto, dalle comunità LGBT, persino quando a sostenerli sono centinaia di migliaia di persone omosessuali in tutto il mondo, anche non credenti.
E ciò che è capitato a me da quando ho deciso di raccontare la mia esperienza, ne è la conferma: cinque anni fa infatti, ho scelto di espormi nel dibattito pubblico per permettere ad altri di sapere quelle cose che a me era costato anni di lacrime e sangue, scoprire.
Da quel momento insulti e minacce sono piovute su di me, sui miei cari, su chiunque mi sostenesse. “Ucciditi”; “Tua madre avrebbe dovuto abortire”; “Ma perché non ti tagli le vene?” sono solo alcuni, tra quelli che il contesto di una simile lettera mi permetta di riferirvi. Ciò che mi ha fatto più male però e che simili parole non siano arrivate dai “cattolici oltranzisti e omofobi”, ma da fratelli attivisti dell’associazionismo gay: cioè da chi oggi vorrebbe far passare una legge che dovrebbe impedire l’odio contro le persone omosessuali.
Quando una simile legge passerà, chi mi difenderà da questa violenza? In quanto persona con attrazione omosessuale, sarà omofobo colpirmi o sarò io l’omofobo? E nel caso, in base a quale criterio oggettivo un giudice potrà stabilirlo?
Badate, non cascherò anche io nella logica della vittima che ha bisogno di tutele speciali: sapevo cosa mi aspettava quando ho scelto di espormi, e me ne sono assunto i rischi. Inoltre a fronte di tutto quel male, ho potuto aiutare tantissimi fratelli di ogni età e condizione, a trovare le risposte che qualcuno aveva loro consapevolmente nascosto, e questo valeva il prezzo di ogni singola offesa.
Non temo chi mi insulta e paradossalmente qui difendo anche la sua libertà di farlo.
Oggi non scrivo infatti per difendere la mia fede, ma la democrazia stessa. Se credete che questo sia un problema che riguarda solo gli omosessuali cattolici, vi sbagliate: in questi giorni le lesbiche sono state attaccate per aver rivendicato il loro essere donne rispetto alle trans, che donne lo “diventano”. L’effetto è stato che gay maschi e trans vorrebbe togliere la “L” di lesbica dalla sigla LGBT.
Ditemi, onorevoli deputati, se una legge così passasse, anche le lesbiche saranno accusate di omofobia? E cosa faranno a quel punto le femministe? Accuseranno i gay di sessismo diventando anche loro omofobe o difenderanno le trans, diventando lesbofobe?
Quale reato sarà peggiore, quale “categoria umana” più meritevole di protezione?
Non è retorica, è già realtà: questo è il mondo che ci attende se una norma così verrà approvata; un mondo dove per tutelare tutti, nessuno sarà più libero di dire nulla.
È ovvio che nessuno può tollerare che una persona sia picchiata, vessata, o licenziata per il suo orientamento sessuale o per qualsiasi altra scelta personale. Ma un simile comportamento è già punito dal nostro ordinamento per chiunque ne sia l’esecutore, mentre fare una norma apposita, in questo modo peraltro, rischia di considerare violenza anche ciò che è solo un’opinione contraria, partendo dal presupposto che, contrastare con l’opinione di qualcuno, sia in sé un sintomo di odio verso di lui, mentre il più delle volte è solo segno di libertà interiore e talvolta anche di amore.
Onorevoli deputati io qui non vi chiedo di condividere i miei valori o le mie convinzioni: io vi chiedo di permettere a persone come me, omosessuali tanto quanto quelli che la legge l’hanno proposta, di poter continuare a raccontare le loro storie, senza rischiare il paradosso di finire incriminati per il reato di omofobia, o di “fautore dell’odio” come questa legge permetterebbe di fare.
Io vi chiedo che non sia negata la pluralità di voci e informazioni che uno stato democratico dovrebbe garantire ai suoi cittadini, e che a me in altri tempi ha salvato la vita.
Io vi chiedo di non approvare una legge che nella sostanza compia la più grave discriminazione che gli stessi attivisti LGBT per anni si sono battuti per eliminare: sottolineare la diversità degli omosessuali rispetto a qualsiasi altro essere umano.
Infatti dal giorno dopo in cui essa sarà approvata essere picchiati o insultati o isolati perché grassi, magri, brutti, ingenui, stupidi… sarà meno importante di quanto non lo sia subire ciascuna di queste terribili cose perché ti piace una persona del tuo stesso sesso.
È giustizia questa? È equità? È uguaglianza?
Mi rivolgo a chi tra voi è omosessuale: davvero vogliamo questo? Essere considerati un’umanità a parte, solo per le nostre preferenze sessuali? Non sarà forse questa legge una ragione in più per attirare addosso a chi ha attrazione omosessuale odio e desiderio di vendetta per una simile prevaricazione? Non ci isolerà ancora di più impedendoci di essere pienamente noi stessi, uomini integrati nella società, che non hanno bisogno di ghetti e riserve protette?
Se questa legge passerà, oltre a privare l’intera società della libertà di espressione, voi contribuirete a cambiare la percezione che le future generazioni avranno di sé stesse, privandole del diritto fondamentale di riconoscersi come uomini e donne, riducendoli alla loro attrazione sessuale, omo e non, e dicendo loro nella sostanza che c’è un mondo che li odia dal quale non avranno mai la forza di difendersi se non tappandogli la bocca.
Alcuni che erano amici si troveranno ad essere nemici, ci saranno nuove vittime e nuovi carnefici e la spirale dell’odio non si fermerà. Perché la chiave della risoluzione dei conflitti non sta nel tappare la bocca al nostro avversario, ma nel permettere che il conflitto stesso esista, poiché esso è il fondamento di un sistema libero, sapendo che un avversario non sempre è un nemico.
Non siate coloro che per tutelare il supposto bene di qualcuno, hanno ucciso la libertà di tutti, finendo col colpire persino coloro che pensavano di proteggere.
Vi imploro non da persona con attrazione omosessuale, ma da uomo, da cittadino che parla ai suoi rappresentanti, siate per i vostri figli ciò che la Chiesa fu per me; siate quegli uomini e quelle donne coraggiose nei quali i nostri figli un giorno possano desiderare di identificarsi.
Fate una cosa coraggiosa. Fate la cosa giusta, perché tutti possiamo essere davvero liberi.