In questi giorni di Stati Generali viviamo quasi una fase costituente con una concentrazione mai sperimentata nel recente passato di intelligenze e di rappresentanze sociali sull’opportunità di costruire il futuro del nostro Paese dopo la pandemia. Un comune denominatore delle tante proposte si fonda sulla digitalizzazione- dematerializzazione coinvolgendo anche (ma non solo) una rivoluzione del modo di lavorare attraverso il cosiddetto smart work o ‘lavoro agile’ che, qui e altrove, è da tempo oggetto di riflessioni approfondite. Vale la pena, però, di tornarci su.
Gli studi econometrici sulla felicità, infatti, sono concordi nel verificare che il tempo degli spostamenti casa-lavoro riduce la soddisfazione di vita. L’effetto ‘netto’ dello smart work è dunque quello di renderci potenzialmente più felici e ‘ricchi di tempo’ consegnandoci un gruzzolo di tempo ‘liberato’. Lo smart work sembra inoltre avere tutte le caratteristiche di resilienza richieste nella fase post Covid-19. Aumenta la produttività del lavoro se ben gestito e riduce l’esposizione della nostra società a choc ambientali e pandemici. Ma… ci sono ovviamente dei ‘ma’. In questo periodo di esercitazione forzata di massa di smart work, oltre ad aver sperimentato l’opportunità di una maggiore conciliazione tra tempo di lavoro e tempo di relazioni, ci siamo accorti di tre ostacoli fondamentali. Il primo è il comfort dello smart work domestico che dipende dalle caratteristiche dell’abitazione e dalla qualità di connessione e terminali che abbiamo a disposizione.
Il secondo, avvertito soprattutto dalle donne data la distribuzione delle attività domestiche in Italia tra i due sessi, è un aggravamento dei compiti di cura. Il terzo è legato al problema delle relazioni di lavoro che con lo smart work entrano in una nuova dimensione tutta da costruire e regolare. Sgombriamo subito il campo da un equivoco. Non bisogna confondere lo smart work ideale post Covid-19 con quello forzato a cui siamo stati costretti in tempi di quarantena. Superata la pandemia, potremmo alternare lo smart work al lavoro in presenza e non avremo vincoli al consumo di pasti non preparati in casa e all’apporto di servizi domestici. È ovvio, inoltre, che le relazioni umane e professionali in presenza sono più ricche di quelle a distanza. E anche che la formazione scolastica deve tornare a essere in presenza non appena sarà possibile.
Ma, tornando al settore delle professioni e dei servizi, siamo sicuri che sia assennato (e produttivo) fare tre ore di treno da Roma a Milano per partecipare a una riunione e tornare indietro in giornata quando nello stesso giorno possiamo fare cinque cose da casa stancandoci molto meno negli spostamenti e vivendo affetti e relazioni familiari ? A regime, si stima che nel settore pubblico un potenziale di due/tre giorni di smart work a settimana potrebbe essere ottimale riducendo il contributo al traffico urbano del 40-60% e con esso quello all’inquinamento e alle polveri sottili che causano, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, fino a 219 morti al giorno in Italia. Investimenti per ridurre le diseguaglianze digitali e per agevolare fiscalmente i servizi di cura domestica dovrebbero accompagnare la misura. Fondamentali il potenziamento della banda larga e l’acquisto di hardware e software che possa rendere più agevole il lavoro domestico.
La rivoluzione del ‘lavoro agile’ richiede anche di ridisegnare parte delle relazioni sindacali per evitare che il lavoro a casa possa creare forme di sfruttamento che ci ricordino situazioni storiche di lavoro a cottimo del passato. Molto ricche le linee guida recentemente realizzate dalla Fim-Cisl che giustamente parlano di ‘smart work hub’. Sarebbe un paradosso se lo smart work nato per renderci padroni del nostro tempo ci costringesse a lavorare in remoto nello stesso orario di lavoro e solamente dall’abitazione domestica. Diritto alla disconnessione e attenzione a evitare che il tempo di lavoro fagociti tutto il resto saranno fondamentali. Ma la possibilità di scegliere liberamente luoghi e tempi (compatibilmente con le esigenze di lavoro in team con i colleghi) deve essere preservata valutando i risultati più che le forme.
Alle Settimane Sociali di Cagliari 2017 commentando tante buone pratiche di flessibilità già esistenti avevamo parlato di un futuro che ci avrebbe resi ‘imprenditori del nostro tempo’ e capaci di combinare idealmente lavoro, formazione, tempo della cura e tempo libero. La crisi della pandemia ci ha dato una scossa facendoci vedere il mondo da un altro punto di vista e accelerando questa transizione già in corso.
Fonte: Leonardo Becchetti | Avvenire.it