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ULTIMO BANCO :: 41. In memoria di Licy

 

Fra le lapidi rose dall’aria salmastra che soffia sul cimitero dei Cappuccini a Palermo ce n’è una protetta da un recinto di ferro battuto. Incisi sulla pietra, due nomi: Alexandra Wolff Stommersee Principessa di Lampedusa morta a Palermo il 22 giugno 1982 (oggi l’anniversario) e Giuseppe Tomasi Principe di Lampedusa morto a Roma il 26 luglio 1956. Sono due gli errori che potrebbero sfuggire: l’altisonante e nordico secondo cognome di lei aveva una sola «m»; la data di morte di lui, avvenuta nella capitale il 23, fu sostituita da quella della tumulazione a Palermo, tre giorni dopo. Due errori che, come spesso fanno gli errori, tradiscono interessanti verità. Ho cercato di raccontarlo ai ragazzi delle quinte della mia scuola, nella quale, lungo l’anno, coppie di insegnanti di classi diverse, presentano autori del ‘900 spesso trascurati. Così ho accettato la proposta della mia collega Anna di raccontare il retroscena del Gattopardo di cui mi sono innamorato a 17 anni e la cui origine «amorosa» è oggetto di uno dei racconti di Ogni storia è una storia d’amore. Che cosa lega una nobile di Riga e uno di Palermo, aristocrazia a parte? Il ponte che unì il Baltico al Mediterraneo fu la lotta per salvare ciò che era stato violentato dalla storia, dopo che un’unica guerra a latitudini diverse divorò le loro case. Nei primi Anni ‘40, i Sovietici invasero la Lettonia ed espropriarono agli Stomersee il loro bianco castello e gli Americani bombardarono Palermo, demolendo l’antico palazzo Lampedusa incastonato nel cuore di una città che ancora oggi porta le cicatrici delle bombe.

Licy — così lui chiamava la moglie, meraviglioso il loro carteggio — fu una pioniera della psicanalisi: cercava nella memoria dei pazienti ciò che sembrava morto, per ridargli vita. E così fece anche con il marito, imprigionato nel dolore delle dimore perdute: palazzo Lampedusa a Palermo e palazzo Filangeri a Santa Margherita Belice, i veri protagonisti del Gattopardo, come racconta Licy stessa. Era una tiepida sera palermitana del 1954: «Io e mio marito stavamo seduti a guardare la luna, lui era triste, inquieto, non riusciva ad abituarsi alla nuova casa. Gli dissi: la luna è uguale in ogni posto, perché non ti eserciti a immaginare la vita che ha vissuto il palazzo, com’era, cosa succedeva? Scrivi e tutto vivrà come prima». E lui in due anni scrisse — sono di parte — il più bel romanzo italiano del ‘900 e primo best-seller nazionale: postumo. Rifiutato per ragioni ideologiche (non aderiva a una certa idea di impegno politico) da Elio Vittorini, fu pubblicato da Giorgio Bassani due anni dopo la morte, di tumore e dispiacere, di Tomasi, a cui veniva così riconosciuto il vero impegno politico a cui è chiamato un artista: la bellezza. Il libro e il film conquistarono il mondo, ma lui non lo seppe mai: postumo in tutto, anche nella data di morte incisa sulla lapide. Però riuscì a far rinascere le cose (o le case) morte e guarire se stesso. Infatti nei Ricordi d’infanzia, laboratorio del capolavoro, diceva: «Tenere un diario o scrivere le proprie memorie dovrebbe essere un dovere imposto dallo Stato: il materiale che si accumulerebbe dopo tre o quattro generazioni avrebbe un valore inestimabile: molti problemi psicologici e storici che affliggono l’umanità sarebbero risolti». Per questo, durante l’estate, i miei alunni devono tenere un diario, scritto a mano: senza parole precise, soprattutto in tempi di memorie «esterne», la memoria svanisce e, con essa, la vita. Il Gattopardo è memoria dell’Eden: «Il lettore si aspetti di esser menato a spasso in un Paradiso Terrestre e perduto». Qui sta la sua poesia: trovare nella storia umana una via al paradiso, nome del nostro insaziabile desiderio di infinito. Tomasi la cercò nell’infanzia e nella casa che ne fu teatro: «La amavo con abbandono assoluto. E la amo ancora adesso, quando non è che un ricordo. La casa (casa voglio chiamarla e non palazzo, nome appioppato adesso ai falansteri di quindici piani) era rintanata in una delle più recondite strade della vecchia Palermo». Il Gattopardo è una lotta della memoria contro il fluire del tempo e la violenza della storia. Ma forse tutta la creatività umana è un tentativo di arginare la morte: ogni uomo s’aggrappa a ciò che lo rende vivo, e giorno dopo giorno scopre se ciò a cui si è affidato resiste e lo salva dal naufragio, o affonda con lui.

Leggere il Gattopardo non è solo concedersi la gioia di una prosa che crede nelle subordinate e nelle pause, e quindi nell’ordine delle cose e nel silenzio, ma è soprattutto risvegliare la memoria viva a cui diamo nomi nostalgici — ricordi, infanzia, casa — che sono solo segni di quella «vita che non muore» a cui ci sentiamo chiamati e che Licy, per e con amore, intravide nella bellezza della sera e nella malinconia del marito: «La luna è uguale in ogni posto. Scrivi e tutto vivrà».

Fonte: Corriere.it

 

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