Chiese abbandonate, cadute in disuso, dismesse: quale è il loro futuro? Il tema è al centro oggi del seminario online “ Processi e contesti nella dismissione delle chiese”, promosso dal Centro Studi per l’architettura sacra della Fondazione Lercaro. Un’occasione per approfondire e dare continuità alla riflessione che Pontificio Consiglio della Cultura, Cei e Gregoriana hanno avviato nel 2018 con il convegno “ Dio non abita più qui?”, da cui sono scaturite le linee guida per il recupero delle chiese non più in uso. In questa pagina approfondiamo il tema con due relatori. Gli altri interventi sono di Valerio Pennasso, Roberto Tagliaferri, Claudia Manenti, Maria Chiara Giorda, Enzo Pace. Un seminario online promosso dalla Fondazione Lercaro approfondisce la sorte dei beni culturali ecclesiali non più in uso in un’ottica multidisciplinare
Il sociologo Diotallevi: «Non farne feticci»
Lo shock da chiesa dismessa? Il sintomo del passaggio di un’epoca, sostiene Luca Diotallevi, ordinario di Sociologia a Roma Tre e studioso del fenomeno religioso: «Può essere una tragedia o una liberazione. Certamente non richiede nostalgia ma profezia».
Professore, di chiese nella storia se ne sono sempre dismesse, trasformate e demolite, anche non per via delle soppressioni dello Stato laico… Perché ora è così problematico?
È la vera domanda: siamo alla fine di una fase della storia del cristianesimo in cui la chiesa è diventata un tempio, un luogo “sacro”. Per questo l’attuale fenomeno fa così scandalo in Italia o nell’Europa continentale. Il modello architettonico della chiesa cristiana è la basilica: un edificio laico con funzione comunitaria. Non è un caso che sant’Agostino usi il termine città per dire Chiesa. I cristiani facevano chiese dove c’erano persone. Quando queste si spostavano gli edifici diventavano inutili e andavano in decadenza e i materiali venivano usati per altre chiese.
E ora?
Dal XVI secolo alla metà del XX secolo il cristianesimo continentale ha conosciuto una stagione particolare della sua storia, che non coincide con il cristianesimo in toto. Ci sono stati diversi “cristianesimi” ma la generazione che vive il cambiamento ha l’effetto ottico per cui quello da cui esce è “il” cristianesimo. E non finisce un mondo ma “il” mondo. Figure come De Lubac o Sturzo lo avevano capito sul tempo. Paolo VI e il Vaticano II ci avevano dato tutti gli strumenti per reggere il colpo. Invece noistiamo vivendo molto male il passaggio, perché l’essere umano è abitudinario. In questo schema storico la dismissione di chiese crea forti difficoltà. Nonostante nella liturgia ci siano riti per la consacrazione come per la dismissione, venendo da un’epoca che ha teso a sacralizzare le chiese il loro abbandono è uno shock.
Dal punto di vista sociologico cosa ci dice?
Sta finendo l’era in cui il cristianesimo era il collante e il fenomeno riguarda il mutare del rapporto tra religione e società. Ma attenzione a collegarlo alla crisi del religioso: i consumi in questo campo vivono un vero e proprio boom: ma sono le forme confessionali di origine cinquecentesca ad andare in crisi. Occorre reinventarsi uno spazio ecclesiale che abbia i caratteri per confrontarsi con la società contemporanea.
C’è il rischio di trasformare le chiese in feticci?
È quello che accade. Ci preoccupiamo del rischio di chiudere chiese, ma molto meno di come sono le chiese nuove che facciamo. Dobbiamo chiudere 50 chiese? Facciamone 5 che siano chiese di oggi. Quando le chiese romaniche cadevano a pezzi, gli ordini mendicanti costruivano chiese per il proprio tempo. A noi manca la lettura di questo tempo. L’architetto della basilica di Assisi interpretava una intuizione, noi abbiamo il passato ma non sappiamo immaginare il futuro. L’arrivo degli ordini mendicanti produce nella città medievale una torsione dell’impianto urbanistico. Il cristianesimo non è una posizione integrista, non una fuga dal mondo, ma una presenza capace di deformare, più o meno lievemente, lo spazio. Se non è più capace di farlo perde la sua essenza.
L’Italia è in linea con l’Europa?
Premesso che dal punto di vista di socioreligioso quando parliamo di Italia usiamo un termine astratto – in Francia il cattolicesimo è molto unitario, nel nostro paese, per via della sua storia, basta cambiare diocesi perché tutto cambi – noi siamo in ritardo di un paio di decenni. Non abbiamo voluto fare attenzione, per questo ci arriva come cosa nuova. Ma sotto questo profilo viaggiamo in parallelo con la ricezione di altri fenomeni della modernità.
L’architetto Longhi: «Riuso di comunità»
«Quando la cronaca si occupa di chiese dismesse è sotto forma di scandalo, e questo non aiuta a leggere il problema» spiega l’architetto Andrea Longhi, docente al Politecnico di Torino e tra i principali studiosi in Italia dell’edificio chiesa nella contemporaneità. «È uno scenario complesso, in cui non mancano casi interessanti per i quali più che di riuso si dovrebbe parlare di miglior uso».
C’è un dato numerico sulle chiese dismesse in Italia?
La risposta è inevitabilmente no. Però occorre fare ordine nel lessico: più che di dismissione si dovrebbe parlare di chiese che affrontano il processo canonico di riduzione a uso profano, e queste, tecnicamente, sarebbe possibile sapere quante sono. Posso darle i dati nella diocesi di Torino dove dal 1999 al 2018 sono documentate 43 riduzioni a uso profano su un totale di circa 1.400 chiese soggette all’autorità del vescovo, per circa 350 parrocchie. Sono numeri importanti. Ma in generale quelle sottoposte a iter canonico sono una parte minima delle chiese con prevalente uso ibrido, perché metà delle chiese e cappelle italiane non sono di proprietà diocesana e molte sono di privati… Quando vediamo chiese trasformate in garage e discoteche si tratta di edifici che non erano di proprietà ecclesiastica e che spesso non sono più chiese da decenni se non da secoli.
L’Italia presenta differenze rispetto all’Europa?
C’è una differenza tra i casi documentati in Europa centrale e settentrionale, e l’Italia. Nei primi si tratta di luoghi di culto in centri urbani, dove la pratica religiosa cattolica è scomparsa. Nel nostro paese il fenomeno riguarda invece soprattutto le aree rurali, marginali e interne, colpite dallo spopolamento. In questo caso la presenza di luoghi di culto da destinare ad altro uso possono essere una risorsa, una opportunità per usi integrati, come aggregazione, cooperazione, formazione, accoglienza. Sono usi che richiedono innovazione sociale e giuridica, anche dal punto di vista del diritto canonico, come suggerisce un interessante passaggio delle linee guida del Pontificio consiglio della Cultura. Il dato fondamentale è partire da una ricognizione del territorio e mettere in relazione esigenze della comunità e patrimonio ecclesiastico.
Si tratta quindi di ripensare il legame chiese e territorio.
La Cei a oggi ha censito circa 66mila tra chiese e cappelle e i comuni italiani sono 8mila: una comunità oggi si trova a dover gestire, in media, 8 luoghi di culto: una sovrabbondanza che oltre all’aspetto pratico appare oggi liturgicamente insensata, quando una comunità è chiamata a raccogliersi attorno a un’unica mensa. Tutti questi edifici possono trovare attività pastorali specifiche, stagionali, dedicate ai momenti forti, a fasce generazionali. Ad esempio la gestione del lutto, che è un tema fortissimo e sulla quale la richiesta di spazi è sempre più sentita. La soluzione per queste chiese “dismesse” è nel legame con la comunità. Costruire chiese nuove non è in contraddizione con l’abbandono: si costruisce dove serve, si abbandona dove non serve più.
Se l’edificio chiesa non è “sacro” di per sé ma solo in funzione del suo uso liturgico, perché la sua conversione in biblioteca è accettabile e in ristorante no?
Perché è un problema sociale. E generazionale. Fino a che c’è la memoria di una celebrazione in quel luogo, è fastidioso. Non solo, ci sono chiese e cappelle che raccolgono in sé momenti alti della storia della comunità. A quel punto non è una questione di liturgia ma di sacralità della memoria civile. Per questo serve prudenza. Non è un problema di “muri”. Se anche non ha più interesse verso un edificio ma sa che la dismissione scandalizzerebbe la comunità, deve essere cauta.
Fonte: Alessandro Beltrami | Avvenire.it