Finalmente, il bisogno di un nuovo modello di sviluppo è espresso non solo da pensatori che vivono nell’ombra, ma anche da politici, sindacalisti, opinionisti e altri personaggi ad alta visibilità mediatica. Una svolta indotta non solo dagli squilibri ambientali, sociali e sanitari che caratterizzano il nostro tempo, ma anche dalle riflessioni morali, sociali, esistenziali, avanzate da alcuni testi di riferimento, primo fra tutti la Laudato si’ di papa Francesco. Ed ecco emergere un’altra idea di sviluppo non più basata sulla quantità di cose che sappiamo produrre, ma sul grado di felicità che sappiamo raggiungere, ricordandoci, come Gesù ebbe a dirci già duemila anni or sono, che «non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». Un’enunciazione che volendola parafrasare in chiave moderna e laica potrebbe diventare «non di solo Pil vive l’uomo, ma di tutte le sue relazioni».
Per troppo tempo troppi hanno pensato che la felicità si misuri solo in termini di ricchezza e di agiatezza, ma l’esperienza dice che dipende anche da quanto ci sentiamo amati, da quanto tempo possiamo trascorrere con i nostri cari e i nostri amici, da quanto tempo possiamo dedicare alle nostre passioni e ai nostri interessi, da quanto ci sentiamo protetti, da quanto ci sentiamo realizzati, da quanto sappiamo guardare al futuro con ottimismo, da quanto ci sentiamo liberi e capaci di partecipare. Il che conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che l’essere umano non è solo dimensione corporale, ma anche affettiva, sociale, spirituale, per cui si ha vera felicità solo se tutte queste dimensioni sono soddisfatte in maniera armonica. La volpe del “Piccolo Principe” direbbe che l’armonia è una cosa troppo dimenticata. Eppure l’armonia, intesa come equilibrio, è la chiave di volta di un nuovo modello di sviluppo ispirato a criteri di equità, sostenibilità, soddisfazione umana. Equilibrio fra necessità produttive e limiti delle risorse, equilibrio fra rifiuti prodotti e capacità di assorbimento della natura, equilibrio fra esigenze occupazionali ed esigenze sanitarie, equilibrio fra bisogni nutritivi e integrità del creato, equilibrio fra tempi di lavoro e tempi di cura, equilibrio fra spazi cementificati e spazi verdi, equilibrio fra produzione locale e produzione globale, equilibrio nella distribuzione della ricchezza all’interno delle filiere internazionali, equilibrio fra energie dedicate alla dimensione individuale e quelle dedicate alla dimensione comunitaria. È la prospettiva dell’ecologia integrale, che per essere attuata richiede l’adozione di princìpi comportamentali totalmente diversi da quelli che attualmente in vigore.
In un celebre discorso che tenne ad Assisi nel 1994, Alex Langer disse: «Sinora si è agito all’insegna del motto olimpico “citius, altius, fortius” – più veloce, più alto, più forte – che meglio di ogni altra sintesi rappresenta la quintessenza dello spirito della nostra civiltà, dove l’agonismo e la competizione non sono la mobilitazione sportiva di occasioni di festa, bensì la norma quotidiana ed onnipervasiva. Se non si radica una concezione alternativa, che potremmo forse sintetizzare, al contrario, in “lentius, profundius, suavius” – più lento, più profondo, più dolce – e se non si cerca in quella prospettiva il nuovo benessere, nessun singolo provvedimento, per quanto razionale, sarà al riparo dall’essere ostinatamente osteggiato, eluso o semplicemente disatteso». Un ribaltamento di paradigmi che nel concreto significa sobrietà invece di consumismo, riciclo invece di usa e getta, cooperazione invece di sopraffazione, locale invece di globale, tecnologia dolce invece che dirompente. La buona notizia è che parte di essi li stiamo accogliendo. Ad esempio ci siamo convinti che dobbiamo passare dall’energia fossile a quella rinnovabile, dalla produzione lineare a quella circolare, dagli oggetti ad alta intensità di materiale a quelli leggeri. Un insieme di trasformazioni meglio note come green economy che la stessa Commissione europea è intenzionata a finanziare sotto il grande capitolo del green new deal.
In definitiva ciò che si nota è la disponibilità a modificare il come, ma non il quanto. Disponibilità a modificare come si produce e si consuma, ma non quanto si consuma, perché la crescita è il meccanismo che dà stabilità alla macchina capitalista. E questo da un punto di vista sia economico sia sociale, considerato che per vivere abbiamo bisogno di un lavoro e che il lavoro è legato a doppio filo ai consumi, ormai non più solo a livello nazionale, ma addirittura mondiale, visto che viviamo in un’economia globalizzata. E tuttavia il lockdown (la sospensione di ogni attività non indispensabile) ci ha dimostrato in maniera inequivocabile quanto sia necessario contenere produzione e consumi se vogliamo ridurre il nostro impatto sulla natura. Secondo i calcoli della rivista “Nature Climate Change”, nell’aprile 2020 le emissioni di CO2 sono diminuite del 17% come conseguenza delle restrizioni imposte dalla pandemia. Una riduzione che non si era mai vista prima, neppure durante la crisi del 2009.
A contenere il pessimismo c’è che il passaggio all’economia verde creerà nuovi posti di lavoro almeno in alcuni comparti. Ma i posti che perderemmo se solo ci sbarazzassimo dell’inutile e del superfluo, sarebbero di certo superiori a quelli recuperati. Per cui il vero tema che dovremo affrontare in una prospettiva di sostenibilità è quella del lavoro: come coniugare sobrietà e lavoro per tutti? Forse solo un Piccolo Principe, libero da ogni sorta di condizionamento, potrebbe aiutarci a sciogliere il rebus, perché la nostra abitudine a considerare come lavoro solo quello salariato non ci aiuta a trovare la soluzione. Ma in attesa di saper vedere il lavoro con occhi nuovi, fin d’ora possiamo intuire che una strada da battere è la riduzione dell’orario di lavoro. Una proposta fin troppo scontata: quando di lavoro salariato ne serve meno, complice l’introduzione di macchine sempre più automatizzate, l’unico modo per estenderlo a tutti è redistribuirlo. In alternativa dovremmo redistribuire il reddito, ma una società formata da pochi che lavorano e molti che vivono alle loro spalle, non pare una prospettiva sostenibile e molto dignitosa. La piena partecipazione produttiva a orario ridotto converrebbe a tutti. Ai vecchi, che godrebbero di un orario più adatto alle proprie condizioni fisiche. Ai giovani, che conquisterebbero autonomia e dignità. Alle donne, che raggiunta la parità fuori casa potrebbero rivendicarla anche fra le mura domestiche. Ma meno lavoro salariato significherebbe inevitabilmente meno soldi e nella nostra mente si affaccia un’altra domanda altrettanto angosciante: ce la faremo? La risposta è che dipende da ciò che i nostri salari devono coprire. Una cosa è doverci comprare solo cibo, vestiario ed altri oggetti di uso quotidiano. Altra cosa doverci pagare anche casa, farmaci, esami diagnostici, libri, retta scolastica e qualsiasi altra necessità. In altre parole il salario di cui abbiamo bisogno dipende fortemente dal livello di protezione sociale che ci offre l’economia pubblica. Il sindacato lo ha sempre saputo e in altri tempi difendeva il salario non solo rivendicando aumenti di paga, ma anche pretendendo servizi gratuiti da parte della collettività. Il che dimostra che c’è un intreccio profondo tra riduzione dell’orario di lavoro ed espansione dell’economia di comunità. Il rapporto è inversamente proporzionale: quanto più si riduce l’orario di lavoro, tanto più devono crescere servizi pubblici e protezione sociale. Solo a questa condizione la riduzione dell’orario di lavoro può mettere in evidenza tutti i suoi risvolti positivi e diventare socialmente desiderabile.
Questo conferma che un nuovo modello di sviluppo è molto più di una semplice rivisitazione tecnologica. È un nuovo modello organizzativo costruito su nuovi valori, nuovi ruoli, nuove interazioni. Soprattutto è un nuovo modo di concepire il lavoro, il mercato e la comunità.
Fonte: Franceso Gesualdi | Avvenire.it