Un tredicenne di Ravenna, insoddisfatto del suo essere maschio, vorrebbe essere femmina. Il suo caso finisce davanti a un giudice
Greta – il nome è arbitrario – è un ragazzino di tredici anni che vive a Ravenna, un ragazzino che ha sempre manifestato, fin dagli anni della scuola elementare, la propria insoddisfazione nell’essere maschio. Un sentimento che la pubertà ha amplificato e che ha trovato una sponda in una serie di adulti, tra cui i genitori, alcuni giornalisti della trasmissione “Le iene” e in ultimo un pubblico ministero. La vicenda è diventata un caso e il corpo di quel ragazzino un simbolo dove affermare ideologie, convinzioni, diritti e libertà.
Si vorrebbe a questo punto trascinare gli opinionisti su una delle due barricate, riproducendo su questioni di tal sorta gli stessi fallimentari schieramenti che da oltre mezzo secolo determinano la politica d’oltreoceano e che dividono il mondo in pro choice o pro life (in questo caso si potrebbe dire pro nature). Ma domandiamoci se questa stessa divisione non sia parte del gioco, della volontà spersonalizzatrice che denunciavano già molti intellettuali paradossalmente marxisti negli anni Settanta e che conduce, inesorabile, a una reificazione dell’esistenza che in fondo se ne frega del problema in sé.
Così, con la consapevolezza di chi sa che non si può dir tutto o sapere tutto, proviamo a suggerire al lettore tre spunti di riflessione vera non tanto su quello che ognuno sa, quanto su quello che ciascuno sperimenta e comprende a partire dalla quotidianità.
L’uomo è solito individuare, addomesticare, il proprio tormento di creatura riducendolo a un desiderio più piccolo, più gestibile, più manovrabile. Negli anni Sessanta del Novecento, il capitalismo ha progressivamente cavalcato questa riduzione dell’umano, spacchettando la forza inquieta della nostalgia in una serie di piccole volontà che – realizzate poco per volta – anestetizzano il Grande Punto Interrogativo che costituisce il crisma originale ultimo della nostra specie: viviamo volendo, ma – e questo è forse più vero – volendo moriamo, ci consumiamo, prosciughiamo la nostra stessa umanità. Il primo lavoro, pertanto, che attende chi vuole invertire questo processo non è quello di combattere le singole volontà, combattere “Greta”, ma aiutare le singole volontà a riconnettersi con i desideri. Da che desiderio nasce quello che vogliamo? Cosa nascondono le nostre volontà?
La risposta, secondo spunto di riflessione, non è frutto di un ragionamento: la cultura neopositivista è stata serva del capitalismo, lo stesso marxismo logico ha permesso al capitalismo di affermarsi perché ha ridotto la realtà a pensiero: noi non siamo quello che pensiamo, noi dobbiamo smetterla di consegnare il primato dell’essere al pensiero. È assurdo come il nichilismo, per ribellarsi a questa dittatura del pensiero, abbia involontariamente suggerito – da Nietzsche in poi – la strada più impensata eppure più vera: quella della vita. Ma la vita, e qui i nichilisti si smarrivano, è anzitutto tempo: le grandi domande chiedono non grandi risposte, ma grandi tempi e tanta vita.
Tredici anni è un tempo piccolo, angusto, povero, per una domanda come quella che si porta appresso il giovanotto di Ravenna. Chi vuole aiutarlo, e aiutarsi a essergli amico, dovrebbe quindi restituirgli il diritto al tempo. L’immediato uccide le amicizie, i matrimoni, l’educazione dei figli, la fede: è il tempo che alimenta certezze e verità, un tempo vissuto non a contatto con la propria mente, ma con la realtà. “Greta” non è in una puntata di “Elite” o “Riverdale”, non fa parte delle rivendicazioni del Black lives matter, Greta è Greta… una Parola unica detta al mondo che ha bisogno di spazi e tempi per conoscersi, esplorarsi ed esprimersi.
Infine, terzo spunto, non è sufficiente riannodare volontà a desideri, desideri a tempi e tempi a esperienze solide di realtà: occorre silenzio, ossia quella capacità di conoscere e coltivare se stessi che si impara nell’arco della vita e che la grande tradizione occidentale ha sempre espresso in spazi gratuiti di bellezza, in gesti chiamati “preghiera”, in ambienti denominati “comunità”. Il silenzio è compagnia, è telefonata, è spegnimento dei riflettori, è passare dall’avere attenzione verso i propri voleri all’attenzione alle povertà e ai bisogni degli altri.
Desiderio, realtà, silenzio: la strada di Greta ha bisogno di alimenti lontanissimi rispetto a quelli offerti dai pm o dal circo mediatico. Ma Greta tutto questo non se lo può dare da sola: a tredici anni ha ancora diritto a degli adulti, a gente che non la rimbrotti né la promuova, ma che semplicemente le offra lo spazio per essere figlia senza lasciarla in balia di se stessa. E, in questo modo, ultimamente orfana.
Fonte:Federico Pichetto | IlSussidiario.net