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Il centralismo è morto, un nuovo modello (volendo) è possibile

 

Uno degli effetti collaterali della pandemia è la crisi definitiva della gestione centralistica della scuola. Un altro modello è possibile

Il dibattito sulla ripartenza della scuola a settembre sta avendo delle impennate che vanno oltre le angustie del momento. Per aprirsi a questioni che puntano a comprendere come, davvero, dare una svolta qualitativa “di sistema”.

Mentre i presidi ed i loro collaboratori sono tutti concentrati sul rebus della ripartenza, fermarsi e trovare qualcuno che, per un attimo, sia capace di alzare lo sguardo per concentrarsi sulla propria mission nella società odierna credo faccia bene a tutti.

Provo, dunque, a sintetizzare alcuni spunti raccolti.

Non sarà che uno degli effetti collaterali di questa pandemia sia la crisi definitiva della gestione centralistica del servizio pubblico scolastico? Perché, ce lo siamo detti tutti, il risultato finale delle linee guida della task force ministeriale è stato: cari presidi, vedete voi.

Dunque, la palla è stata rilanciata nelle mani dei presidi, meglio, delle scuole. Quasi ad invocare un’autonomia che è solo sulla carta, per qualche aspetto, ma nella realtà è solo una chimera. Troppo facile, troppo comodo.

Qual è il punto critico, sul piano del sistema?

Provo a chiarirlo. Non tutti sanno che il ministero dell’Istruzione, con un milione complessivo di lavoratori, è la seconda agenzia del lavoro al mondo dopo il Pentagono. Ma un sistema che dal “centro” voglia governare tutto il complesso ed articolato mondo della scuola, ed in modo univoco, è una pia illusione, come è anche emerso dalle linee guida per settembre.

Dall’800 si è scelta questa strada pensando, allora, di “fare gli italiani”, ogni stagione secondo la propria visione. Per decenni la scuola ha assolto, in qualche modo, al compito della alfabetizzazione e di ascensore sociale, ma la nostra “società aperta” ha scompaginato ogni tradizione. Già negli anni novanta si è pensato di aprire una nuova stagione con l’autonomia scolastica, poi rimasta sulla carta. Per cui ancora oggi dipendiamo dalle circolari ministeriali, nei finanziamenti, nei bandi di concorso, nelle direttive, lasciando del tutto irrilevanti quelle forme di rappresentanza dei cittadini, cioè gli enti locali, che dovrebbero essere, invece, il perno di un’etica della responsabilità personale, quindi di una verifica sussidiaria di qualità di un servizio pubblico.

Perché in una democrazia sono i cittadini ad essere gli “arbitri” del servizio pubblico, come aveva proposto Roberto Ruffilli, senatore Dc ucciso nel 1988 dalle Brigate rosse, dieci anni dopo l’assassinio di Aldo Moro.

Cittadini, e non sudditi.

In altri Paesi europei questo già avviene. Basta fare un viaggio, magari all’interno di uno dei progetti Erasmus+, finanzianti dall’Europa, per vedere come è organizzata la scuola.

Dal ruolo centrale delle Regioni, come in Germania, a quegli degli enti locali, come nel nord Europa.

Lo Stato, in altre parole, deve con le norme nazionali dare le linee generali, le finalità e gli obiettivi, con un compito di controllo e di ispezione (ad oggi assente), perché siano garantiti gli standard. Ma la gestione e l’organizzazione devono spettare agli enti locali, perché le scuole devono essere sempre più interfaccia delle nostre comunità locali. E i rappresentanti degli enti locali, come negli altri Paesi, devono entrare anche nel governo delle scuole, per garantire quella flessibilità ed efficacia che oggi sono appannaggio della sola buona volontà dei presidi, dei docenti e del personale senza alcuna forma di valutazione e perciò di valorizzazione. Tutti con lo stesso stipendio, al di là della loro professionalità.

È illusorio oggi pretendere di governare in modo univoco dinamiche diverse, e l’unica forma di responsabilizzazione e di controllo (al di là delle fasulle autovalutazioni) è, appunto, la corresponsabilizzazione ed il coinvolgimento delle comunità locali. Cosa che, per buona parte, già avviene nelle province autonome di Trento e Bolzano.

Il risultato sarà una programmazione con un piano formativo non più di ogni singolo istituto, ma territoriale, concordato tra scuole diverse, con docenti scelti, come in tutto il mondo del lavoro, sulla base di albi professionali regionali, e gestione e finanziamenti delle strutture condivise con gli enti locali.

Una scuola, un preside, un docente non farà bene il suo compito? Oltre al coordinamento col corpo ispettivo nazionale, sarà il quadro di governo locale che dovrà intervenire, senza più quella scappatoia assistenzialistica che è una delle spine nel fianco delle scuole di oggi, e, purtroppo, prassi negativa difesa ancora da un mondo sindacale che sarà costretto a ripensare il proprio compito come difesa e promozione della professionalità e non della mera distribuzione di posti di lavoro, cioè come ammortizzatore sociale, senza alcuna verifica qualitativa (con profili scritti nei bandi che non tengono in considerazione gli aspetti psico-attitudinali dei candidati) fidando, infine, solo sulla buona volontà degli interessati, una volta assunti.

La scuola può rendere qualificante la propria missione, dunque, solo rimettendo al centro gli studenti e le famiglie, non altre priorità. Cioè se diventa vero servizio pubblico.

Non quindi una scuola chiusa a riccio, ma aperta e dinamica, come è aperta e dinamica la nostra vita sociale.

Fonte: Gianni ZEN | IlSussidiario.net

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