Quando fu approvata la legge 194, il tenore letterale dei suoi articoli e gli intenti dei suoi promotori individuavano nell’intervento abortivo l’extrema ratio: si sarebbe proceduto a esso solo se la fase della prevenzione/dissuasione non fosse riuscita a far recedere la gestante dall’ivg grazie alla prospettazione da parte del medico o del consultorio di “concrete alternative all’aborto”.
La 194 si muoveva sui binari dell’aborto “terapeutico”, in virtù della sentenza con cui la Corte costituzionale nel 1975 aveva indicato come prioritaria la salute della donna, e a tale bene aveva conferito una accezione estesa: non assenza di patologie, ma pieno benessere fisico e psichico. La stessa articolazione delle norme del 1978 ne svela l’originaria ipocrisia; intanto perché la salute così interpretata si riteneva posta in pericolo dall’incidenza su di essa di problemi di carattere familiare, o economico, o sociale, o di lavoro. E poi perché fin dall’inizio l’evocazione della salute si mostrava un pro forma: quel che pesava – e pesa – ai fini dell’aborto è il rilascio del certificato attestante lo stato di gravidanza. Perfino se il medico o il consultorio non riconoscono nessuna delle indicazioni previste per abortire, ciò al più ha comportato – e comporta – uno slittamento di 7 giorni della consegna di quel pezzo di carta: l’esito è comunque che la gestante che ha deciso di abortire lo fa e basta.
In 42 anni la prevenzione/dissuasione non ha funzionato: il meccanismo della legge lo ha precluso, e con esso l’assenza di investimenti che conferissero concretezza alle “alternative all’aborto”. L’aborto, in spregio alla lettera della 194, è diventato da subito una prestazione a richiesta, doverosa da parte del sistema sanitario pubblico, e uno strumento per il controllo delle nascite, come attestano gli oltre 6 milioni di ivg “legali” realizzate fino a tutto il 2018: un contributo non marginale all’inverno demografico che attanaglia l’Italia.
Le nuove linee di indirizzo per l’aborto farmacologico annunciate da ministro Speranza costituiscono lo sviluppo coerente di questa prassi, non distonica dalla struttura della 194. In questi 4 decenni non vi è stata solo una diffusione ampia della pratica abortiva: vi sono state affermazioni di principio non secondarie. Quando nel 2014 la Corte costituzionale ha ammesso con la sentenza n. 162 la fecondazione artificiale di tipo eterologo, essa ha fondato tale estensione sul diritto all’autodeterminazione in ordine al figlio. Se però un ordinamento riconosce un “nuovo diritto”, quest’ultimo non è mai unidirezionale: il “diritto” al figlio può raggiungersi sia disgiungendo la genitorialità biologica da quella giuridica, sia col rifiuto del figlio indesiderato attraverso l’aborto. Voglio il figlio, e se ne ho il diritto posso ottenerlo a ogni costo, pure col seme di altri. Non voglio il figlio, devo essere posto in grado di privarmene a ogni costo e nel modo in apparenza più comodo, se del caso ingerendo una pillola.
È raro tuttavia che sul fronte della vita 1 + 1 corrisponda sempre a 2. È più frequente che ci si imbatta in imprevisti e paradossi. Così, l’aborto reso legale quale scelta necessitata per tutelare la “salute” della donna oggi si trasforma in “diritto”, a prescindere dalla salute della donna: le segnalazioni dei problemi seguenti all’assunzione del composto chimico per eliminare il feto mostrano che non è così semplice e indolore. Così, l’aborto reso legale per far sì che il sistema sociosanitario – questa era l’intenzione proclamata – si prendesse carico delle difficoltà a proseguire la gravidanza diventa strumento di ulteriore pressione sulla donna a opera del partner che rifiuta il figlio, o dei genitori di lei che non se la sentono di sostenerla, o del datore di lavoro pronto a metterla alla porta.
Ci sarebbe infine – infine? – il concepito: di cui nessuno parla. Eppure l’eliminazione massiccia di esseri piccoli e visibili inizialmente solo all’ecografo, ma non per questo meno vivi e reali, non è senza conseguenze per tutti noi: al di là dei credi religiosi e dei dogmi ideologici, dovremmo interessarci un po’ di più della loro sorte. Oltre che per loro, perché l’altro volto della apparente leggerezza pillola abortiva sono i nostri capelli sempre più bianchi, e una sclerosi sociale così diffusa che non ci rendiamo conto di quanto prossima sia la fine del nostro mondo: ad affrettare la quale scelte come quella del ministro Speranza concorrono attivamente.
Fonte: Alfredo Mantovano | CentroStudiLivatino.it