Il 15 agosto, nel giorno dell’Assunta, abbiamo ascoltato a messa la lettura dell’Apocalisse, il drago accucciato davanti al grembo di una partoriente, pronto a divorare il bambino che sta per uscire dall’utero della donna. Poi la lettera di San Paolo ai Corinzi, in cui la primizia di Cristo risorto dai morti anticipa il destino di ciascuno. Quando «dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza… L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa Cristo ha posto sotto i suoi piedi». Infine il Vangelo della “bella ragazza”, Maria, secondo l’appellativo inciso tra i graffiti del primo-secondo secolo scoperti da padre Bagatti sotto la basilica dell’Annunciazione a Nazaret, a ribadire come tutto è cominciato, da un niente, da una ragazzina che ha abbracciato invece di respingere una situazione veramente paradossale e strepitosamente inimmaginabile.
Ecco, circa 24 ore prima di queste cose rammentate nell’eucarestia di Ferragosto, la mattina del 14, probabilmente poco prima di mezzogiorno, dalla parete sud dell’isola di Tavolara, Sardegna, 500 metri di roccia a picco nel mare blu di una riserva naturale tra le più belle e incontaminate del mondo, veniva giù Giuliano Stenghel, trentino di Villa Lagarina, arrampicatore fuoriclasse, istruttore, capocordata, oltre 200 nuove vie aperte in solitaria. Uomo che in vita sua ha abitato i nidi d’aquila rocciosi più che esistenze come le nostre tra pareti domestiche. Sua moglie Serenella, a cui Stenghel ha dedicato un’associazione onlus che ha come scopo la solidarietà verso le persone e in particolare bambini che si trovano in condizione di grande povertà, era morta a 26 anni. Lui, lo “Ste” per gli amici, è morto a 67 anni, rimbalzando sulla roccia come un manichino sconnesso, rocambolando e scapicollando giù dalla montagna fino al tonfo cupo, udito da turisti che facevano snorkeling.
Irriconoscibile nel volto, la testa spaccata, Giuliano ha lasciato la sua vita terrena nel posto che considerava come sua seconda casa e al quale aveva appena dedicato un documentario (“Il regno di pietra”, qui il trailer) a supporto della sua associazione. Scopriamo questa vicenda grazie a Tina Mureddu, nostra cara amica anestesista all’ospedale di Olbia. E questa è la storia Giuliano Stenghel, scritta da lui medesimo, circa alle 4 del mattino, in questo post pubblicato su Facebook il 9 maggio scorso, giorno di lockdown, che vi riproponiamo integralmente.
«MA QUESTO DIO, CHE ESISTA VERAMENTE?»
“Ma questo Dio, che esista veramente?”. Che strana la notte: a volte ti avvolge e ti fa dormire serenamente, altre invece ti sveglia alle quattro del mattino e non riesci più a prender sonno. E quando accade, mi metto sul computer a buttar giù pensieri…
In questo periodo di grande angustia per l’umanità, di grande dolore per la perdita di una persona amata, si è alla disperata ricerca di qualche certezza per il nostro futuro. Sui social leggo di tutto e di più, ma ciò che mi colpisce è questo pessimismo dilagante: siamo bombardati di notizie catastrofiche, alcune addirittura apocalittiche. Di fronte a ciò, preferisco nutrire un sano, seppur cauto, ottimismo; lo stesso che ho ancora ai piedi di una grande parete da scalare, quando il timore di non farcela mi coglie. Ma poi, la consapevolezza della grande gioia in vetta, per usare una metafora, di toccare il cielo con un dito, mi fa andare oltre. Rifletto che l’uomo ha mille energie.
Alla mia veneranda età, quando in parete mi sorgono i dubbi di non farcela, mi viene spesso spontaneo pensare a una valutazione attribuita a un grande scienziato: al calabrone che per le leggi della fisica – a causa del suo peso e delle sue piccole ali – non potrebbe volare, ma lui se ne frega e continua a farlo. E così anch’io, nonostante gli acciacchi degli anni che scorrono inevitabili, nonostante in molti mi dicano che forse è il caso che smetta di arrampicare a certi livelli, me ne sbatto e continuo a farlo con tanta passione. È la capacità di sognare e la fiducia che ci rende forti! E vorrei aggiungere che per un credente è d’obbligo essere ottimista!
In questo periodo in molti si chiedono: “Ma dov’è finito Dio?”. “Ma questo Dio, che esista veramente?”.
E altro ancora: “Sarebbe bello che Lui esistesse, ma se è così, non è di sicuro in questo mondo e non guarda giù troppo spesso”… “E le stesse chiese? Perché aprirle se non servono ad altro che a sprecare parole e soprattutto a rischiare di passarci il virus?”.
La mia esperienza, seppur limitata, mi ha portato ad affermare che chi crede veramente in Dio è destinato a vederlo in ogni cosa, talvolta persino nelle manifestazioni di grandi prodigi. Per me Dio, nonostante le mie inevitabili debolezze e povertà, è come l’aria che respiro: non la tocco, non la vedo, ma non riesco a farne a meno! Considero che Dio mi ha fatto per un Suo disegno, però mi ha voluto alpinista e quando arrampico me lo sento vicino, compiaciuto della mia gioia di vivere, insomma lo immagino felice che io sia “felice”.
Ho vissuto, più o meno, metà della mia esistenza da non credente, poi, con la grande prova della malattia e della perdita di mia moglie Serenella, le mie certezze in un attimo sono crollate, si sono volatilizzate: tutto ciò che, a lungo, si era dato per scontato, tutto quello che davo per eterno, è diventato un punto interrogativo, anzi si è distrutto in pochi secondi; ma si sa che le sicurezze assolute non sono di questo mondo, salvo la morte e qualcuno sostiene con una battuta: le imposte da pagare.
Certamente la Croce ha influito a farmi volgere gli occhi a Dio, riconoscendo la mia estrema povertà e disperazione, ma non è stato solo quello. Chi mi conosce a fondo sa che sono un uomo che ha lottato e sofferto fin da piccolo. Oggi credo, soltanto per un dono di Dio, un insieme di circostanze, di casi o segni che mi hanno dimostrato la Sua esistenza. Poi certe cose si possono comprendere soltanto attraverso il cuore. E voglio aggiungere che chi prega non ha paura e chi ama è felice!
Ma tanti anni fa la pensavo diversamente…
Vivevo a cento all’ora, le mie aspirazioni e i miei obiettivi erano tutt’uno con l’alpinismo, concentravo tutte le energie e il mio tempo unicamente nell’arrampicata, spesso addirittura da solo, senza corda né protezioni, senza rendermi conto dei rischi che correvo e dell’importanza della mia vita, se non per me, almeno per le persone che avevo accanto. Campavo soltanto per una sbornia di emozioni. E se fossi caduto quando scalavo completamente slegato? Mi sarei sicuramente sfracellato centinaia di metri più sotto e non avrei lasciato nulla. Ebbene, mi sentivo sicuro, sembrava impossibile potesse capitarmi qualche incidente e per di più ero felice di realizzare i miei sogni. Qualche tempo dopo avrei imparato che non si può essere felici senza la felicità degli altri, a cominciare da chi ci sta vicino, ed è un dovere lottare per realizzare anche i desideri degli altri, in particolare di chi soffre.
Non avevo bisogno di sapere se Dio esistesse, come fosse solo una questione filosofica. Anzi, la sua proposta d’amore legata a una Chiesa piena di contraddizioni non m’interessava. “Ogni essere vivente deve godere dei propri spazi di libertà, essere autonomo, padrone assoluto della propria vita”. Non capivo quelli che sostenevano che l’uomo avesse un bisogno innato del divino. “È bello pensare che continueremo a esistere anche dopo morti, è confortante pensare che ci sia qualcuno che ci protegge e ci ama. Ma che bisogno c’è?”.
Non cercavo una vita di speranza, nemmeno nei momenti di dolore, e tanto meno rincorrevo questo amore che, dicono, trascenda la carne. Io vivevo per le emozioni, era quello che mi serviva, era quello che mi bastava. Della religione mi piaceva solo la figura di san Francesco, il suo modo di vivere o di altri personaggi, uomini leggendari nel bene come Gandhi, Martin Luther King, Teresa di Calcutta e tanti altri.
Ero convinto che i problemi dovessero essere risolti con volontà e coraggio, senza l’intervento di nessuno e per di più le religioni erano state artefici dei più grandi conflitti. Quante guerre si sono combattute per le confessioni? Troppe davvero. In nome di Dio si sono compiuti i più crudeli massacri e i preti? Quelli talvolta erano insopportabili, persone fuori dal tempo che vivevano in un mondo tutto loro. Gli esseri umani non fanno mai il male con tanta esaltazione ed eccitazione come quando lo fanno per religione.
Avevo imparato a credere nell’uomo. Ero certo che l’amore tra due persone potesse nascere e crescere dal bisogno reciproco. Però, non ero insensibile al dolore degli altri e sentivo forte il desiderio della solidarietà. La mia vita era passione. Mi fidavo della gente, amavo gli altri e chi camminava con me; desideravo aiutare il mio prossimo, senza aspettarmi nulla in cambio, tanto meno un ipotetico paradiso.
Io, alpinista di fama, scopritore e apritore di moltissime vie di difficoltà estrema. Io, che non davo importanza alla vita vissuta con umiltà ed ero sempre alla ricerca di nuove emozioni. Io, che credevo che in ogni uomo albergasse una forza misteriosa, che se controllata permetteva di oltrepassare ogni limite: non un dono quindi, ma soltanto il volere che diventa potere. Io, che non avevo bisogno di Dio, perché nel mio mondo non c’era posto per lui. Io, che un giorno mi sarebbe caduto il cielo in testa e il Suo amore mi avrebbe salvato…
La lunga malattia e la morte di mia moglie Serenella a 26 anni d’età. Solo con una bambina piccolissima da crescere, per la prima volta, io, l’onnipotente alpinista mi sono trovato ai piedi di una parete inaccessibile, senza corda e moschettoni, senza nulla per salire. Per la prima volta, nella disperazione più profonda, mi sono reso conto che l’unica possibilità che avevo per andare oltre era quella di rivolgermi a quel Dio che Serenella aveva sempre creduto. Gli dissi: “Se ci sei… batti un colpo!”.
Ci sono dei momenti in cui si ha un estremo bisogno di credere in un essere superiore amico, padre e fratello, capace di risolvere i nostri problemi o almeno darci conforto. Per anni l’avevo ignorato, ma in quell’istante lo stavo invocando con la disperazione nel cuore e speravo mi rispondesse. Accaddero dei fatti, delle sensazioni, delle emozioni: avvertivo dentro che non ero più solo nella mia disperazione: qualcosa, qualcuno mi stava accanto.
Nella vita di ogni uomo c’è sempre un momento che sconvolge l’esistenza, in cui tutte le certezze scompaiono assieme ai sogni: è un attimo che ti può gettare in un baratro, oppure può dare un senso e trasformare il tutto in amore. Il male divora se stesso, mentre il bene ti catapulta nell’eternità. Secondo me, c’è una cosa che non si può imparare e tanto meno insegnare, è semplicemente un dono che ti arriva dopo una scelta ben precisa: Dio o il nulla! Per spiegarmi meglio: basta semplicemente chiedere a Dio, anche una sola volta nella vita, di occuparsi di te e ti posso assicurare che Lui lo farà per il resto dei tuoi giorni.
Il periodo di vita vissuto accanto a mia moglie è stato molto intenso, ma anche lancinante; con lei ho vissuto gli anni che nessuno vorrebbe vivere, ma quando mi sono reso conto del deserto della sua mancanza, ho provato un vuoto che nulla poteva riempire. Ciononostante, i giorni tristi mi hanno aperto gli occhi sul significato della vita, compresi l’importanza di lottare e non arrendermi contro il male, seppur invaso dalla sofferenza e dall’angoscia, non mollai, consapevole che, con Serenella e il suo immenso potere di angelo, il dolore si sarebbe attenuato e il sole sarebbe ritornato a sorgere anche per me.
In quei frangenti di grande angustia, ho imparato a sopportare, ho acquisito talmente tanta capacità di soffrire che il supplizio mi ha aiutato a crescere interiormente, a reggere e accettare una situazione nostalgica, tanto malinconica, con l’aiuto di Dio e della Sua forte presenza di amore e di consolazione. Malgrado il profondo sconforto che mi affliggeva, cercai di capire… come il destino fosse riuscito a provocare un così radicale mutamento nella mia esistenza.
Ho lottato con tutte le forze per realizzare i desideri delle persone che amo, sforzandomi di comunicare il progetto di Dio su ognuno di noi. Ora, a dispetto della vecchiaia e della situazione, non ho perso il carattere battagliero, immediato ed energico, non ho perso gli aspetti forti del mio modo d’essere, tipico dell’alpinista, degli uomini che vogliono osare. Non mi ritengo appagato dalle grandi soddisfazioni avute, tuttavia ho ancora voglia di ricercarne altre; non mi accontento di ciò che ho fatto, ma continuo verso nuove mete e nuovi orizzonti. Osservo che, anche se la vita spesso mi ha fatto soffrire, me la voglio tenere stretta fino alla fine. Insomma ho ancora tanta forza, per contro ammetto di essere un uomo debole: spesso legato al gusto e alle delizie. Ma, non mi abbatto, perché so in quale direzione andare e soprattutto da chi farmi accompagnare.
Fonte: Luigi Amicone| Tempi.it