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Informazione, solo la dieta vi salverà

Lo studioso svizzero Rolf Dobelli lancia una sfida alla società dei media: «Possiamo fare a meno delle notizie che spesso sono inutili o inaffidabili». E spiega come vivere senza essere connessi H24

Le notizie? Nel migliore dei casi una perdita di tempo, nel peggiore una pericolosa intossicazione che c’impedisce di pensare con chiarezza e di decidere al meglio sulle questioni cruciali della nostra vita.

È la provocazione di Rolf Dobelli, in Smetti di leggere notizie. Come sfuggire all’eccesso di informazioni e liberare la mente, uscito in pieno lockdown per i tipi del Saggiatore: libello polemico che sembra spararla grossa, ma finisce per instillare un sano dubbio. Se magari non ci convince del tutto a seguire la totale astinenza da news proposta dall’autore (che per informarsi sull’attualità si affida al riassunto settimanale dell’”Economist”, prediligendo poi pezzi lunghi di approfondimento, libri e contatti diretti con gli esperti), qualche colpo lo mette a segno. Perché è indubbio che nel nostro modo di consumare le informazioni – soprattutto i piccoli, continui snack che ci provengono dai social media – ci sia qualcosa da migliorare.

Siamo sempre più connessi, ma sempre meno informati seriamente e capaci di pensare in modo originale e approfondito. Dobelli, scrittore e saggista svizzero, classe 1966 – già autore del fortunato L’arte di pensare chiaro (e di lasciare agli altri le idee confuse), edito da Garzanti nel 2014 – è anche fondatore di World Minds, una community di un migliaio di esperti in vari settori, dall’arte alla scienza, dall’economia alla politica, nata con lo scopo di studiare e diffondere idee in grado di migliorare la qualità delle decisioni che ognuno di noi è chiamato a prendere individualmente, ma che hanno ripercussioni sulla vita collettiva. Condizione imprescindibile per favorire lo sviluppo di un pensiero approfondito e originale è scegliere con cura le fonti dell’informazione, proprio come facciamo con il cibo.

Il libro ci invita a riprendere il controllo: decidere noi, in autonomia, quello che è davvero rilevante per la nostra vita e approfondirlo. Senza cedere al condizionamento sempre più pervasivo dei media, che attraggono e governano la nostra attenzione e il nostro tempo, beni preziosi, che dovremmo tenere cari. «Nel sistema dell’informazione in cui siamo ora, ciò che è nuovo viene venduto sempre anche come rilevante. Ma non è così. Ognuno di noi dovrebbe fare un piccolo esercizio. Innanzitutto determinare che cosa è davvero importante per la propria vita, e ciò dipende dalle ‘sfere di competenza’, cioè gli ambiti nei quali si può davvero influire, fare la differenza: il primo è naturalmente costituito dalla nostra famiglia e dagli affetti più cari, il secondo in genere dalla nostra professione. Potrebbe essercene anche un terzo, un hobby particolare o un secondo lavoro. Tutto ciò che riguarda questi aspetti ci tocca direttamente ed è rilevante per noi. Ora, consideriamo le notizie che abbiamo letto durante un anno (che in media sono tra le 20mile e le 30mila), quante di queste ci ricordiamo? Quan- te hanno avuto un impatto su una di queste sfere di competenza? Molto probabilmente il numero non è superiore a due o tre. Che per un’attività – come il consumo di news in tutti i possibili formati – cui dedichiamo tra i 58 e i 96 minuti al giorno, non è granché».

Ma nemmeno l’emergenza Coronavirus le ha fatto cambiare idea sulla necessità di informarsi per essere partecipi di quanto accade nel mondo?

In dieci anni di “dieta da notizie”ho “sgarrato” soltanto due volte. La prima in occasione dell’elezione di Donald Trump, la seconda in questo periodo di pandemia. Il Coronavirus ci riguarda tutti direttamente, entra a pieno in una o più di quelle sfere che ho descritto. Quindi inizialmente devo ammettere che ho ricominciato a leggere news. Poi ho capito che le stesse informazioni potevo ottenerle affidandomi direttamente a siti scientifici (per le notizie mediche) e a risorse istituzionali (per le indicazioni pratiche). Devo riconoscere però che in questo periodo eccezionale è stato molto importante il lavoro dei giornalisti che hanno raccontato le storie di chi si è ammalato e dei tanti che si sono prodigati nella cura. Questo ha contribuito a creare un senso di maggiore empatia e condivisione.

Allora perché sarebbe così grave, a suo avviso, leggere le notizie?

A parte questa situazione particolare, trovo che nella normalità siano decisamente di più gli svantaggi. Seguire freneticamente l’attualità non ci aiuta a capire il mondo, c’illude magari di partecipare emotivamente a una sciagura che avviene dall’altra parte del pianeta, ma in realtà comprendere davvero è faticoso, richiede tempo. Significa conoscere non soltanto i fatti, ma le dinamiche che li collegano e per questo occorrono libri, articoli approfonditi, non bastano certo i 90 secondi di un servizio del tg. Inoltre il controllo compulsivo delle news ci rende più ansiosi, e inclini a sopravvalutare gli aspetti negativi della realtà.

A questo proposito nel suo libro lei parla di “bias della negatività”. Di cosa si tratta?

Le notizie rafforzano un atteggiamento che abbiamo innato e che è legato alla sopravvivenza: la tendenza a lasciarsi influenzare molto di più (il doppio, secondo gli studiosi) dalle notizie negative rispetto a quelle positive. Questo era necessario, agli albori della nostra specie, per stare in guardia e reagire ai pericoli. Ma oggi? L’effetto è uno stato di stress più o meno costante, un aumento della paura, delle preoccupazioni personali, anche se non direttamente collegate alle notizie. E paradossalmente questo ci rende passivi, poco inclini a intervenite in modo concreto per fare la nostra parte, intacca la forza di volontà. Siamo sovraccarichi di informazioni su problemi che non potremo mai risolvere, tendiamo anche a sovrastimarli. Quindi alla fine ci sentiamo impotenti.

C’è spazio per un “buon giornalismo” nello scenario che lei descrive?

In un mondo ideale un ruolo importante dovrebbe spettare al giornalismo investigativo. I giornalisti dovrebbero diventare “esperti” in grado di spiegare davvero le dinamiche alla base dei fatti che descrivono. Poi si dovrebbe praticare molto di più il constructive journalism, ovvero il “giornalismo positivo”, che indica anche le soluzioni, non soltanto i problemi. Non so però quale potrebbe essere realisticamente il modello di business, forse sarebbe necessario un intervento statale per sostenere forme di giornalismo di questo tipo.

Per tutto il resto l’unica possibilità è la sua dieta?

Si, e bisogna fare alla svelta. Con gli algoritmi che intercettano in modo sempre più preciso i nostri interessi diventerà quasi impossibile evitare le notizie. Se proprio non si riesce a rinunciare del tutto, meglio leggere un giornale di carta, privo di link e di video, che sono fonti di enorme distrazione.

Fonte: Stefania GRASSINI  int. Rolf Dobelli – Avvenire.it

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