Mai discorso filosofico fu più tempestivo per giudicare un fatto della vita concreta. Quel che Umberto Galimberti ha detto al Meeting di Rimini nel corso di un incontro avente a tema il nichilismo e le sfide del vivere mi ha illuminato su una cosa che mi era capitata la sera prima. Interrogato sulle sue preoccupazioni circa il dominio della tecnica nelle nostre vite, il filosofo aveva risposto che il problema sta nel fatto che la tecnica non è più uno strumento nelle mani dell’uomo, ma l’uomo è diventato parte integrante di un apparato tecnico. L’approccio tecnologico alla realtà conosce solo i valori dell’efficienza e della produttività, non dischiude nessun orizzonte di senso o di salvezza. L’apparato mette fuori gioco la coscienza umana, così che non si agisce più sulla base di ciò che è bene ed ha senso, ma per eseguire efficientemente il compito affidatoci dall’organizzazione a cui apparteniamo. Non siamo più responsabili davanti alla nostra ragione e dunque alla nostra coscienza, ma davanti ai superiori posti a capo dell’apparato di cui siamo parte integrante. Ditemi se questo non spiega quello che mi è successo la sera del 19 agosto, quando me ne tornavo serenamente dal Palacongressi di Rimini, dove avevo ascoltato relatori di vaglia come Patrick Deneen e Theo Boer, a Bellaria, dove ero ospite insieme a moglie, figlia e nipotino in un hotel in riva al mare. La chiamano alternanza spiaggia-lavoro, ed è riuscita abbastanza bene, se non fosse per quell’incidente mercoledì sera.
Percorro in auto il centro della località, seguendo le razionali istruzioni del mio navigatore satellitare, per raggiungere il mio hotel. C’è da attraversare una zona a traffico limitato (ztl), ma l’albergatore mi ha assicurato che chi è alloggiato presso un hotel fa parte automaticamente di coloro i quali sono autorizzati a spostarsi con l’auto attraverso tali zone. Tuttavia un’auto dei vigili urbani si mette sulle mie tracce non appena i suoi due occupanti mi scorgono mentre percorro il tratto di via Pascoli interdetto al traffico veicolare. Mi fermo subito dopo un passaggio a livello, notando il loro lampeggiante acceso, e attendo di poter dare loro spiegazioni. «Buona sera, che cosa ha fatto?», domanda retoricamente l’agente che mi si avvicina. «Sto raggiungendo l’hotel Excelsior, per arrivarci occorre attraversare almeno una ztl». Risposta: «L’Hotel Excelsior non è nella ztl che lei ha attraversato con l’auto, si trova in via Cristoforo Colombo». Mia replica: «Ma anche la via Cristoforo Colombo è ztl! Che differenza fa se raggiungo l’hotel attraversando la ztl di via Pascoli e poi girando a sinistra verso il mare, o invece imbocco la via Colombo arrivando da un’altra direzione?». «Nessuna differenza, ma per disposizione amministrativa lei è autorizzato a entrare con l’auto in una ztl se in quella via si trova l’indirizzo a cui si deve recare, non è autorizzato ad attraversare una ztl per recarsi ad un indirizzo di altra via». In realtà una differenza c’è, ed anche piuttosto importante: la ztl di via Pascoli è lunga 2-300 metri, quella di via Cristoforo Colombo è lunga 1 km e passa, e l’Hotel Excelsior si trova quasi in fondo alla via (che è a senso unico).
Per arrivare alla mia destinazione secondo i desiderata dei vigili di Bellaria, devo scansare con l’auto i pedoni del lungomare per un chilometro intero in pieno mese di agosto, quando invece il percorso che avevo scelto io comportava non più di 300 metri di ztl in una zona molto meno frequentata dai pedoni. Alle mie spiegazioni aggiungo il fatto che sono a Bellaria per la prima volta, che ho seguito i consigli dell’albergatore e che amministrazione comunale e associazione degli albergatori dovrebbero meglio coordinarsi ed evitare di contraddirsi. Niente da fare: la contravvenzione viene staccata e notificata. I due agenti non si sono nemmeno preoccupati di spiegarmi qual era la via alternativa da percorrere per non incorrere in nuove contravvenzioni volendo raggiungere l’Hotel Excelsior. Ho preso io l’iniziativa di chiederlo a uno di loro due, quando già se ne stavano andando, fieri di aver compiuto il loro dovere. Solo a quel punto l’agente verbalizzatore mi ha fornito indicazioni. E poi come per scusarsi ha concluso con la classica frase che collima perfettamente con l’analisi galimbertiana: «Questa è la norma, e noi dobbiamo applicarla». «Se la norma è davvero questa, è una norma illogica, e voi non dovreste applicarla», gli rispondo. Avrei dovuto dire che oltre che illogica è pericolosa: la sera dopo ho seguito il percorso indicato dall’agente, e ho incontrato molte più difficoltà della sera precedente nel garantire l’incolumità dei numerosi turisti che camminavano in mezzo alla strada.
Credo che in questa piccola storia si ritrovino tutti i tratti caratteristici dell’assorbimento dell’umano nell’apparato tecnico di cui ha parlato Galimberti. Ci sono l’efficienza e la produttività che prendono il posto della ricerca e della realizzazione del bene: la priorità è fare quante più multe possibili per incassare quanti più soldi possibili, senza preoccuparsi se le disposizioni decise aumentano il pericolo di investimento dei pedoni da parte dei veicoli. Ci sono gli agenti che si identificano al meccanismo tecnico e quindi ritengono esaurita la loro funzione nel momento in cui hanno assolto al compito di erogare punizioni, senza preoccuparsi dell’interesse del multato a non incorrere in future sanzioni. E c’è lo scarico delle responsabilità, che non fanno più capo alla coscienza rettamente formata, ma all’ordine gerarchico: noi dobbiamo applicare una norma così come è stata decisa da chi sta sopra di noi, non possiamo permetterci di usare il buon senso, non siamo liberi di esercitare la nostra ragione e il nostro senso morale.
Racconto la vicenda che mi è capitata e le riflessioni che ho fatto sulla base di quanto ascoltato all’incontro del Meeting a mia figlia, che è un’ammiratrice di Galimberti. Obietta che in realtà la subordinazione della coscienza all’autorità superiore non nasce con l’avvento dell’egemonia del paradigma tecnologico, ma è stata sempre dominante anche nelle società fortemente gerarchizzate. Contro-obietto che sì, la rinuncia ad esercitare i doveri della coscienza per conformarsi ai dettati del potere c’è sempre stata, ma c’è anche sempre stata la ribellione della coscienza: le accenno brevemente alle mie esperienze di reporter in zone di guerra; ho visto guerre, come quella sfociata nel genocidio del Ruanda, dove si sono dati casi di soldati che si sono rifiutati di massacrare i civili come gli veniva ordinato, al prezzo della propria vita. I conformisti dell’epoca dell’egemonia del paradigma tecnologico sapranno fare lo stesso? Me lo auguro, e ci spero. Nel frattempo io farò ricorso contro la contravvenzione che i vigili di Bellaria mi hanno verbalizzato, senza ascoltare ragioni.
Fonte: Rodolfo Casadei | Tempi.it