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Moraglia: la speranza cristiana non è un ottimismo di maniera

Intervista al Patriarca di Venezia sulla lettera pastorale alla diocesi: è l’ora della solidarietà, dice, che non è quella delle grandi cifre ma dei piccoli gesti quotidiani

La speranza è forse la virtù più difficile da imparare anche per i cristiani soprattutto in questi tempi avvelenati, e non solo dalla pandemia. E’ da qui che inizia la nostra intervista al Patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia, a due giorni dalla pubblicazione della sua Lettera pastorale alla diocesi, intitolata La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì:

R. – La speranza è quella caratteristica che accompagna la visione che il cristiano porta nel suo quotidiano. O la speranza riesce a fecondare il quotidiano oppure non è una speranza Cristiana. Il rischio è quello di un ottimismo di maniera – a cui magari non si crede neanche nel momento in cui lo si esterna – oppure quello di rifugiarsi in alcune visioni ideologiche che idealizzano un passato che non c’è più e un futuro che forse non arriverà mai.

Ho voluto riferire il tema della speranza ad un  autore cristiano che si è misurato con una storia difficile: Bonhoeffer. Lui vede l’essenza dell’ottimismo non tanto nel guardare oltre una situazione presente, ma nel radicarsi in una forza vitale, ed è quello che credo sia importante per il cristiano. Le opere di misericordia, la buona cittadinanza – diciamo la partecipazione alla vita politica – nascono sempre da una dimensione teologica che rispetta, nella piena laicità, l’umano e quindi riconosce che c’è un’autonomia da quello che è la visione confessionale delle realtà terrene. Allo stesso tempo, sa che al di là delle attività umane – io penso soprattutto in questo  periodo alla politica, alla  finanza, all’economia – al di là di queste regole, queste scienze e saperi, c’è qualche cosa di più da parte del cristiano che è una sintesi superiore che si concentra sull’uomo, che è una realtà umana e soprannaturale.

Quindi, come ripensare la propria esistenza da cristiani e anche da non credenti? Esiste un punto di  convergenza, un punto comune?

R. – Credo che guardare Gesù Cristo nella sua realtà umana-divina sia la sintesi vincente, l’unica sintesi possibile per il cristiano. Guardare questa umanità che è una vera umanità: Gesù si siede sul pozzo a Samaria, in una giornata calda, incontra una donna e le dice “Ho sete”. Questa umanità che Gesù Cristo ci ha insegnato nel suo stile di vita ha dato importanza a tutte le dimensioni umane del vivere. Credo che i rischi da evitare siano o un fideismo – che distacca quindi il soprannaturale, la grazia, da quella che è la realtà quotidiana, oppure quello che ci ricordava il cardinale Newman: una visione in cui la cultura del tempo rischia di essere criterio interpretativo anche della fede. Ecco, ritengo che sia importante recuperare questa dimensione del cristiano e dell’ umano, dell’umano e del cristiano che insieme possono essere una luce che permette di camminare coi piedi in terra, ma anche con il cuore e la testa nelle cose  e nelle realtà che prendono il loro fondamento ultimo da Gesù Cristo.

Eccellenza, lei in questa lettera propone due vie di grande e semplice concretezza. Quali?

R. – Sono due vie: una personale, pensando a quando i nostri ragazzi, le nostre famiglie, dicono di non illudersi perché per fare la carità e per essere solidali con gli altri, bisogna essere ricchi. La mia personale esperienza mi dice che sono soprattutto le persone che devono fare attenzione ad arrivare alla fine del mese a ricordarsi di più degli altri. Allora, nella lettera, consigliavo, quando le famiglie fanno la spesa settimanale, la spesa “grossa”, di inserire qualche genere di conforto, anche minimo per chi ha bisogno. Citavo la vedova che nel Tempio getta solo due spiccioli, e che agli occhi di Gesù offre di più rispetto a chi dona grandi cifre. Un gesto che invece può riguardare di più la nostra Chiesa, pensando con un po’ di trepidazione all’inizio della della scuola – tra l’altro vorrei dire che noi in Veneto abbiamo una grande ricchezza nelle scuole paritarie che fanno da sempre la loro parte essendo molto vicine anche alle famiglie in difficoltà  – è la possibilità di concedere spazi per una didattica che possa garantire in sicurezza, con una certa pace e armonia, l’inizio dell’anno scolastico. La ripresa della scuola è un po’ la cartina tornasole di quello che sarà il presente e il futuro del  nostro Paese.

In questo contesto, Venezia si appresta a ricordare il suo 1600 esimo anno di vita…

R. – Venezia sta soffrendo, al di là della pandemia che la colpisce, come tutte le città d’arte. Inoltre combattiamo con la fragilità di un territorio – non mi stanco mai di richiamare il pensiero del Papa sul rapporto col Creato, la sua difesa e custosia. Ecco, credo che Venezia sia un po’ un punto privilegiato di osservazione di come l’uomo si rapporta nei confronti della fragilità di un territorio che, in questo caso, nasce dalle acque e vive sulle acque. In più – anche per una certa incuria degli uomini e per certi ritardi della politica che stanno diventando ritardi decennali – rischia di vedere compromessa la sua realtà di città che ha profonde radici e che vuole avere un futuro. Dovrebbe ricevere le giuste attenzioni e cure essendo una città che appartiene al mondo, non solo all’Italia. Dovrebbe godere di uno sguardo da parte di chi non vive a Venezia, ma che dovrebbe portarla nel cuore come emblema di cultura, arte, libertà e anche come progetto futuro di città più a misura d’uomo, più a misura di famiglia e di bambini.

Fonti: Vatican.va

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