«La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che nascono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, fa violenza al suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi è l’incompetenza. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Nella crisi emerge il meglio di ognuno». Il primo giorno di scuola scrivo alla lavagna le parole che vorrei illuminassero l’anno da inaugurare e costringo i miei alunni a impararle a memoria, perché ricordino le coordinate della rotta in ogni istante della navigazione. L’anno scorso avevo scelto Sant’Agostino: «Nutre la mente soltanto ciò che la rallegra». Quest’anno, dato il clima poco allegro, ho scelto invece le parole di un fisico che amava studiare, ma non amava la scuola: Albert Einstein. Mi sembrano perfette per affrontare la paura che ci sta paralizzando e per trasformarla in una sfida. Le soluzioni fisiche non bastano mai, servono quelle metafisiche, perché l’epicentro dei terremoti esistenziali non è in superficie: o cambiamo visione del mondo o avremo sofferto invano. La vita si ribella a schemi e strutture che le imponiamo, soprattutto se, con il passare del tempo, questi schemi e queste strutture non sono più d’aiuto, anzi sono diventate una trappola. A scuola questo è ormai più che evidente.
Il dono che ci fanno le crisi è una rivelazione dolorosa: attraverso la ferita il tessuto della vita ci mostra come vuole essere curato e non più trascurato. Per questo c’è bisogno di mani accorte. «Crisi» è infatti un termine d’origine greca che, fin dall’Iliade, indicava il gesto di separare, nelle spighe, il grano dalla pula: il primo darà pane, il secondo paglia. Un pensiero acritico, cioè privo di crisi, pasticcia tutto: non riconosce la differenza tra la pula e il chicco, tra un banco e un ragazzo. Si parla da mesi dei banchi e del loro distanziamento, necessità risolvibili con un po’ di competenza e buon senso, invece questi discorsi hanno occupato, fino al ridicolo, tutto lo spazio che dovevamo impegnare a raccogliere il grano, che a scuola è ciò che siamo impegnati a far crescere: le vite di maestri e studenti. L’epidemia dell’incompetenza, di fatto, a scuola c’è da anni. Quattro esempi tra i tanti: dal 1999 solo tre concorsi per reclutamento (per legge dovrebbero essere triennali), l’anno scorso 150mila (quest’anno si toccheranno le 250mila) cattedre scoperte su 850mila (precari e supplenti costano meno), 15% di abbandono scolastico, insegnanti di sostegno insufficienti. Sono gli effetti di un sistema sempre in ritardo e non regolato sulle persone, ma su criteri asetticamente economici e interessi politici, avallati spesso da cittadini disinteressati. Eppure la moltitudine di regole che ci sta soffocando in queste ore segnala il centro di gravità: proteggere la vita. Quale vita abbiamo protetto in questi anni, a scuola, con la stessa determinazione con cui compriamo banchi e mascherine? Anche se riusciremo a non fare ammalare nessuno, riusciremo a far crescere qualcuno? Quanti studenti e maestri si spengono perché nessuno si occupa veramente di loro, mettendoli in condizioni di insegnare e imparare come si deve? Il malessere è prima ancora «mal essere»: se in questi anni avessimo curato chi vive la scuola con lo stesso impegno profuso per sanificarla, la scuola forse oggi sarebbe più sana. Ricordiamoci però che le regole servono a proteggere la vita, non bastano a dare la vita, che nasce e cresce con relazioni generative e qualità professionale. Una scuola ridotta a intrattenimento mattutino, contenitore asettico di vite, distributore di pillole per cervelli senza corpo e futuro, non è un vivaio di vocazioni ma di frustrazioni. «La scuola deve educare al pensiero critico»: lo avrete sentito dire sino alla nausea. Ma se «critico» non significa rendere capaci di trovare l’essenziale, la scuola educa solo al pensiero caotico e manipolabile.
Fino a nove anni Einstein anticipava sottovoce una frase prima di pronunciarla perché aveva gravi difficoltà espressive. Non parlava quasi per nulla e questo modo di essere «originale», che lo rendeva «strano» agli occhi degli insegnanti, lo portò a sviluppare un’immaginazione senza pari, il segreto delle sue scoperte: sin da bambino sognava di andare alla velocità della luce per scoprire come si vedesse il mondo. E con questo sogno, mai tradito, scoprì la relatività. Dopo la laurea si guadagnava da vivere in un noioso ufficio brevetti in cui, sbrigato il lavoro da fare, coltivava la sua vocazione alla fisica e così, a 25 anni, scrisse, proprio in quel polveroso ufficio, i quattro articoli che hanno cambiato la visione del mondo. Buona crisi a tutti, sperando non sia solo di nervi…
Fonte: Corriere.it