Se il momento botola (quell’istante in cui vorrei sparire sotto il pavimento perchè mi fanno complimenti che trovo esagerati o fuori luogo, cioè tutti tranne quelli sulla tonicità muscolare, sempre graditi anche se falsi) caratterizza ogni incontro che faccio in pubblico, in questo momento, dopo l’uscita del mio ultimo libro – Niente di ciò che soffri andrà perduto – ogni volta che mi trovo a parlarne è tutto un interminabile momento botola.
E anche quando qualcuno ne scrive, o mi chiama per dire quanto sono belle le mie parole sulla sofferenza, vorrei dire a tutti la stessa cosa: mi sento un po’ abusiva. Un po’ più abusiva del solito. Perché io ho raccontato storie di sofferenze non mie, e di come alcune persone stanno docilmente sulla croce, sopportando dolori ineffabili che mi schianterebbero, come la malattia o la morte di un figlio, o un marito che fa un figlio con un’altra. Ho cercato di essere delicata, di non pontificare perché come ho scritto davanti alla sofferenza quasi sempre non puoi che tacere: il male è un mistero, e cercare di spiegarlo è un’eresia (la Chiesa ha sempre condannato come eretici quelli che cercavano di fare questo) e soprattutto un’offesa per chi soffre. Niente spiegazioni, niente consigli, ma se possibile l’offerta di una spalla, di una mano (o due, se possibile, nel senso di aiuto concreto). Davanti alla sofferenza si sta in punta dei piedi e con rispetto, cercando di offrire vicinanza perché, come chiede sempre Kiko, “come puoi dire di volermi bene se non sai cosa mi fa soffrire?”. E allora perché ho dovuto scrivere questo libro?
Qualcuno mi ha chiesto: che ne sai tu della sofferenza, con la tua vita quasi perfetta?
Allora: prima di tutto rispondo quello che diceva sempre Enzo Biagi, dopo avere intervistato tutti i liù grandi del suo tempo, compresi i ricchi e belli e famosi e potenti: non c’è nessuno, ma veramente nessuno che valga la pena di invidiare. Ognuno di noi ha la sua parte di sofferenza, pensata da Dio per noi al centimetro, al grammo, giusta per le nostre spalle, per scolpire e guarire il nostro cuore, esattamente nei punti in cui ha bisogno di guarigione e salvezza. Quindi anche io ho avuto, ho, e avrò quello che serve per me. Ci sono cose che affronto con leggerezza e cose su cui faccio fatica, e se guardo alle mie amiche mi sembra che a volte alcune fatiche che per loro sono macigni riuscirei ad affrontarle, mentre dolori che loro hanno superato mi avrebbero uccisa. Non siamo in grado di valutare questo, e non ci compete. Dio invece sa bene quello che fa, sempre, e ogni cosa che ci leva la pelle lo fa nel modo buono per noi. Ecco, mi dispiace prendermi i complimenti raccontando dolori che non sono miei, per quanto una cara amica che mi conosce bene e sa tutto di me ha detto di avere letto qualcosa della mia vita in ogni capitolo: lo sguardo degli amici sulla nostra vita è davvero prezioso.
Io volevo fare qualcosa per consolare chi soffre, così come alcune persone hanno fatto con me, e credo che aiutare a trovare un senso alla sofferenza sia un aiuto grande. Quando capisci che quella è una cosa che ti salva, è fatta, cambia tutto. È la rivoluzione copernicana, lo sguardo cristiano sulla storia versus lo sguardo contemporaneo per cui nulla che faccia soffrire (o peggio morire) ha senso. Loro non sanno che Gesù è veramente risorto, e la prospettiva di una morte definitiva rende senza senso tutto quello che ci fa perdere qualcosa, tutte le piccole morti – la perdita di affetti umani, di potere, di soldi, di salute, di giovinezza, di successo. L’importante è salvare le penne, comunque sia.
Invece per noi che vogliamo somigliare a Cristo l’importante è il rapporto con lui, non conta da dove passa, quanto costa, e se fa male, e cosa sembra farci perdere.
Fonte: CostanzaMirianoBlog.com