È un pressante, documentato ed esplicito invito a «curare» sempre sull’esempio del Buon Samaritano quello che la Congregazione per la Dottrina della Fede consegna nella sua lettera «Samaritanus Bonus» dedicata alla «cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita». Vediamone in sintesi i contenuti principali scorrendo l’articolato indice, che fa di questo testo il più completo e avanzato riferimento della Chiesa sul fine vita. QUI IL DOCUMENTO COMPLETO
Curare sempre. «La cura della vita è la prima responsabilità che il medico sperimenta nell’incontro con il malato. Essa non è riducibile alla capacità di guarire l’ammalato, essendo il suo orizzonte antropologico e morale più ampio: anche quando la guarigione è impossibile o improbabile, l’accompagnamento medico-infermieristico (cura delle funzioni fisiologiche essenziali del corpo), psicologico e spirituale, è un dovere ineludibile, poiché l’opposto costituirebbe un disumano abbandono del malato».
Il «cuore che vede». «Ogni malato ha bisogno non soltanto di essere ascoltato, ma di capire che il proprio interlocutore “sa” che cosa significhi sentirsi solo, abbandonato, angosciato di fronte alla prospettiva della morte, al dolore della carne, alla sofferenza che sorge quando lo sguardo della società misura il suo valore nei termini della qualità della vita e lo fa sentire di peso per i progetti altrui. (…) Il programma del Buon Samaritano è “un cuore che vede”».
La cultura di morte. «Alcuni fattori oggigiorno limitano la capacità di cogliere il valore profondo e intrinseco di ogni vita umana: il primo è il riferimento a un uso equivoco del concetto di “morte degna” in rapporto con quello di “qualità della vita”. Emerge qui una prospettiva antropologica utilitaristica. (…) In virtù di questo principio, la vita viene considerata degna solo se ha un livello accettabile di qualità, secondo il giudizio del soggetto stesso o di terzi, in ordine alla presenza-assenza di determinate funzioni psichiche o fisiche, o spesso identificata anche con la sola presenza di un disagio psicologico. Secondo questo approccio, quando la qualità della vita appare povera, essa non merita di essere proseguita. Così, però, non si riconosce più che la vita umana ha un valore in sé stessa».
Eutanasia. «La Chiesa ritiene di dover ribadire come insegnamento definitivo che l’eutanasia è un crimine contro la vita umana perché, con tale atto, l’uomo sceglie di causare direttamente la morte di un altro essere umano innocente. (…) L’eutanasia è un atto intrinsecamente malvagio, in qualsiasi occasione o circostanza».
Suicidio assistito. Citando un suo precedente documento (Iura et bona, 1980) la Congregazione scrive che «quand’anche la domanda di eutanasia nasca da un’angoscia e da una disperazione, e “benché in casi del genere la responsabilità personale possa esser diminuita o perfino non sussistere, tuttavia l’errore di giudizio della coscienza – fosse pure in buona fede – non modifica la natura dell’atto omicida, che in sé rimane sempre inammissibile”. Lo stesso dicasi per il suicidio assistito. Tali pratiche non sono mai un autentico aiuto al malato, ma un aiuto a morire. Si tratta, dunque, di una scelta sempre sbagliata».
Leggi sbagliate. «Sono gravemente ingiuste, pertanto, le leggi che legalizzano l’eutanasia o quelle che giustificano il suicidio e l’aiuto allo stesso, per il falso diritto di scegliere una morte definita impropriamente degna soltanto perché scelta. Tali leggi colpiscono il fondamento dell’ordine giuridico: il diritto alla vita, che sostiene ogni altro diritto, compreso l’esercizio della libertà umana. L’esistenza di queste leggi ferisce profondamente i rapporti umani, la giustizia e minaccia la mutua fiducia tra gli uomini».
Accanimento terapeutico. «Il Magistero della Chiesa ricorda che, quando si avvicina il termine dell’esistenza terrena, la dignità della persona umana si precisa come diritto a morire nella maggiore serenità possibile e con la dignità umana e cristiana che le è dovuta. Tutelare la dignità del morire significa escludere sia l’anticipazione della morte sia il dilazionarla con il cosiddetto “accanimento terapeutico”».
Desistenza terapeutica. «La sospensione di ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione dei trattamenti non deve essere desistenza terapeutica. Tale precisazione si rende oggi indispensabile alla luce dei numerosi casi giudiziari che negli ultimi anni hanno condotto alla desistenza curativa – e alla morte anticipata – di pazienti in condizioni critiche, ma non terminali, a cui si è deciso di sospendere le cure di sostegno vitale, non avendo ormai essi prospettive di miglioramento della qualità della vita».
Nutrizione assistita. «Principio fondamentale e ineludibile dell’accompagnamento del malato in condizioni critiche e/o terminali è la continuità dell’assistenza alle sue funzioni fisiologiche essenziali. In particolare, una cura di base dovuta a ogni uomo è quella di somministrare gli alimenti e i liquidi necessari al mantenimento dell’omeostasi del corpo, nella misura in cui e fino a quando questa somministrazione dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente. Quando il fornire sostanze nutrienti e liquidi fisiologici non risulta di alcun giovamento al paziente, perché il suo organismo non è più in grado di assorbirli o metabolizzarli, la loro somministrazione va sospesa».
Cure palliative. «Della continuità dell’assistenza fa parte il dovere costante di comprensione dei bisogni del malato: bisogni di assistenza, sollievo dal dolore, bisogni emotivi, affettivi e spirituali. Come dimostrato dalla più ampia esperienza clinica, la medicina palliativa costituisce uno strumento prezioso ed irrinunciabile per accompagnare il paziente nelle fasi più dolorose, sofferte, croniche e terminali della malattia. Le cosiddette cure palliative sono l’espressione più autentica dell’azione umana e cristiana del prendersi cura, il simbolo tangibile del compassionevole “stare” accanto a chi soffre».
Gli hospice. «Accanto alla famiglia, l’istituzione degli hospice dove accogliere i malati terminali per assicurarne la cura fino al momento estremo è cosa buona e di grande aiuto».
I bambini. «Principio fondamentale dell’assistenza pediatrica è che il bambino nella fase finale della vita ha diritto al rispetto e alla cura della sua persona, evitando sia l’accanimento terapeutico e di ostinazione irragionevole sia ogni anticipazione intenzionale della sua morte. (…) Nella fase terminale del decorso di una malattia inguaribile, anche qualora vengano sospese le terapie farmacologiche o di altra natura, volte a contrastare la patologia di cui soffre il bambino, in quanto non più appropriate alla sua deteriorata condizione clinica e ritenute dai medici come futili o eccessivamente gravose per lui, in quanto causa di ulteriore sofferenza, non deve però mai venire meno la cura integrale della persona del piccolo malato, nelle sue diverse dimensioni fisiologiche, psicologiche, affettive-relazionali e spirituali. Curare non significa solo praticare una terapia e guarire; così come interrompere una terapia, quando essa non giova più al bambino inguaribile, non implica sospendere le cure efficaci per sostenere le funzioni fisiologiche essenziali per la vita del piccolo paziente, finché il suo organismo è in grado di beneficiarne».
Sedazione. «Per attenuare i dolori del malato, la terapia analgesica usa farmaci che possono causare la soppressione della coscienza (sedazione). (…) La sedazione deve escludere, come suo scopo diretto, l’intenzione di uccidere, anche se risulta con essa possibile un condizionamento sulla morte comunque inevitabile».
Stato vegetativo o minima coscienza. «È sempre del tutto fuorviante pensare che la mancanza di coscienza, in soggetti che respirano autonomamente, sia segno che il malato abbia cessato di essere persona umana con tutta la dignità che gli è propria. Al contrario, in questo stato di massima debolezza, deve essere riconosciuto nel suo valore e assistito con cure adeguate».
Obiezione di coscienza. «Dinnanzi a leggi che legittimano – sotto qualsiasi forma di assistenza medica – l’eutanasia o il suicidio assistito, si deve sempre negare qualsiasi cooperazione formale o materiale immediata. Tali contesti costituiscono un ambito specifico per la testimonianza cristiana, nei quali “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5, 29). Non esiste il diritto al suicidio né quello all’eutanasia: il diritto esiste per tutelare la vita e la co-esistenza tra gli uomini, non per causare la morte. Non è pertanto mai lecito per nessuno collaborare con simili azioni immorali o lasciar intendere che si possa essere complici con parole, opere od omissioni. L’unico vero diritto è quello del malato di essere accompagnato e curato con umanità. Solo così si custodisce la sua dignità fino al sopraggiungere della morte naturale».
Accompagnamento di chi chiede eutanasia o suicidio assistito. «Rispetto al sacramento della Riconciliazione, il confessore deve assicurarsi che ci sia contrizione, la quale è necessaria per la validità dell’assoluzione. (…) Nel nostro caso, ci troviamo davanti ad una persona che, oltre le sue disposizioni soggettive, ha compiuto la scelta di un atto gravemente immorale e persevera in esso liberamente. Si tratta di una manifesta non-disposizione per la recezione dei sacramenti della Penitenza, con l’assoluzione, e dell’Unzione, così come del Viatico. Potrà ricevere tali sacramenti nel momento in cui la sua disposizione a compiere dei passi concreti permetta al ministro di concludere che il penitente ha modificato la sua decisione. Ciò comporta anche che una persona che si sia registrata in un’associazione per ricevere l’eutanasia o il suicidio assistito debba mostrare il proposito di annullare tale iscrizione, prima di ricevere i sacramenti. Si ricordi che la necessità di posporre l’assoluzione non implica un giudizio sull’imputabilità della colpa, in quanto la responsabilità personale potrebbe essere diminuita o perfino non sussistere. Nel caso in cui il paziente fosse ormai privo di coscienza, il sacerdote potrebbe amministrare i sacramenti sub conditione se si può presumere il pentimento a partire da qualche segno dato anteriormente dalla persona malata».
La cura pastorale delle situazioni più complesse. «Anche nel caso in cui una persona non si trovi nelle condizioni oggettive per ricevere i sacramenti, è necessaria una vicinanza che inviti sempre alla conversione. Soprattutto se l’eutanasia, richiesta o accettata, non verrà praticata in breve tempo. Ci sarà allora la possibilità di un accompagnamento per far rinascere la speranza e modificare la scelta erronea, così che al malato sia aperto l’accesso ai sacramenti».
Fonte: Francesco OGNIBENE | Avvenire.it