La brutta storia dei feti abortiti sepolti al cimitero Flaminio di Roma, con i nomi delle madri incisi su sgangherate croci, in un campo vergognosamente fatiscente, ha scatenato l’orda del “politicamente corretto” cui non è sembrato vero di poter strumentalizzare quest’evento a vantaggio del “diritto di aborto”, presentandolo all’opinione pubblica come un “attentato” alla libertà di abortire. Con pacatezza, senza il delirio delle tifoserie contrapposte “pro life” vs “pro choice”, ma con chiarezza e lucidità, qualche considerazione è opportuno farla.
Prescindendo dalle responsabilità legali, la cui valutazione spetta agli inquirenti incaricati, non possiamo e non dobbiamo sottrarci alla valutazione morale (e civile) che l’evento porta con sé. Dobbiamo partire dalla domanda fondamentale: un embrione o un feto umano è “materiale biologico” o è un essere umano in via di sviluppo? E’ un “grumo” di cellule disordinatamente assemblate o è la tappa di crescita biologica che tutti noi abbiamo compiuto per essere oggi ciò che siamo? In termini tecnici, sono considerati materiali biologici il sangue, le urine, ogni tipo di tessuto o organo umano, i capelli, la saliva, ecc …
E’, dunque, scientificamente sostenibile l’analogia fra embrione/feto e i materiali sopra menzionati? Non sembri una domanda né peregrina, né provocatoria, perché dalla risposta a questa domanda dipende la scelta di che cosa farne di un feto abortito, spontaneamente o volontariamente non conta a questo fine. Se trattasi di materiale biologico di scarto, come può essere una parte di fegato o di pancreas asportati durante un intervento chirurgico, la destinazione non può che essere l’inceneritore; ma se si tratta di un essere umano ha il sacrosanto diritto al rispetto e alla sepoltura cui abbiamo diritto ciascuno di noi. E una sepoltura dignitosa prevede un luogo dedicato e dignitoso in un cimitero, magari con un segno commemorativo indirizzato alla sensibilità di chiunque si trovi a passare di lì. Anonimato per ogni singola creaturina sepolta, ma “pietas” pubblica riconoscibile per quella zolla di terra che alberga “uno di noi”. Forse non tutti sanno che perfino parti “riconoscibili” del corpo umano devono essere sepolte con dignità e rispetto: il DPR 254/2003 impone di “avviare a sepoltura in cimitero” parti anatomiche riconoscibili (“arti, membra, parti del viso e similari”) riservando agli “impianti di termodistruzione e non in crematorio” le parti non riconoscibili. Perché dunque non si dimostra altrettanta sensibilità verso un feto o un embrione, che non può essere trattato alla stregua di uno smaltimento di rifiuti.
Non sarà che il delirio pro-aborto del politicamente corretto (che non è più in grado neppure di ricordare che esistono anche gli aborti spontanei) vuole nascondere in fretta, senza lasciare né segni né memorie, il fatto ineludibile che si tratta di un essere umano morto? L’ideologia ha il terrore della verità, perché contro di essa non ha armi se non la bugia e la falsificazione di tutto, a cominciare dall’evidenza scientifica. La coscienza di chiunque non può restare indifferente se posta di fronte al dato reale che ogni aborto – spontaneo o volontario – porta con sé: è morto un bimbo, piccolo piccolo, ma sempre un bimbo. Uno di noi, come ci insegnò Carlo Casini.
E in quanto tale, ha diritto ad una dignitosa sepoltura, sempre e comunque. Certamente l’aver scritto il nome della mamma sulla croce di ogni “morticino” è stata una pessima e deprecabile idea, forse anche questa frutto di una perniciosa ideologia di segno opposto o di una colpevole superficialità. Ma sfruttare questo condannabile gesto per imporre l’eliminazione senza traccia, nel nulla, di piccoli essere umani è inammissibile! Si lasci almeno la possibilità di avere un luogo fisico in cui, chiunque, congiunti o estranei, possa fermarsi dedicando un pensiero o una preghiera. Ci sono corde profonde dell’animo umano che non si annullano per legge e una di queste si chiama “elaborazione del lutto”: non esiste medicina più efficace per lenire il dolore dell’anima che avere un luogo di contatto fisico con colui la cui perdita tanto fa soffrire. Questa è la “pietas” che nobilita l’essere umano. Non permettiamo che il “nuovo umanesimo” senza Dio ci neghi anche questa consolazione.
Fonte: Massimo GANDOLFINI | InTerris.it