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«Come si fa a sapere se un nostro parente è in Paradiso?»
— 6 Ottobre 2020— pubblicato da Redazione. —
La domanda di un lettore ci guida in un excursus tra l’antico e il nuovo testamento, tra pratiche subapostoliche scomparse senza lasciar traccia e le vicende che hanno contrapposto Lutero a un domenicano dai metodi comunicativi “audaci”. E finalmente confortiamo il dato scritturistico con le pagine di due grandi Papi.
Un lettore ci ha chiesto se esista un modo per sapere se un proprio parente è in paradiso. Quando mi hanno mostrato questa domanda ho dapprima sorriso, dicendo: «La risposta è semplicissima: no». Poi mi sono soffermato a pensarci e mi son detto che però la questione apriva la porta a una serie di considerazioni collaterali – sulla storia del cristianesimo, sulle ragioni e sulle modalità… – che valeva la pena di esplorare un poco.
Alcuni riferimenti scritturistici
Anzitutto sulla legittimità del desiderio di salvezza per i propri cari, specie quelli defunti senza aver conosciuto Cristo. Noi tutti abbiamo dei cari estinti per i quali cerchiamo di “lucrare un po’ di grazia”, anche se spesso non sappiamo ben esprimere con termini precisi ciò che facciamo: istintivamente “misuriamo” la loro distanza con il “Mistero buono di tutte le cose” considerando diversi fattori. Anzitutto se la persona in questione era praticante, o se almeno era credente. O se non era credente cerchiamo di valorizzare buone disposizioni costanti che ebbe in vita, quali la rettitudine, l’onestà, la fedeltà nell’amore. Se non troviamo neppure questo cerchiamo di soppesare almeno le ristrettezze in cui visse, le privazioni che subì, le sofferenze che patì… insomma tutto quanto possa se non giustificare perlomeno rendere comprensibili un incattivimento e una cattività rispetto alla questione di Dio. «La bestemmia del povero che soffre – sintetizzava perciò sant’Alfonso Maria de’ Liguori – è una litania alle orecchie di Dio».
Così ragionava Giobbe riguardo ai figli, che pure erano vivi:
Ora i suoi figli solevano andare a fare banchetti in casa di uno di loro, ciascuno nel suo giorno, e mandavano a invitare anche le loro tre sorelle per mangiare e bere insieme. Quando avevano compiuto il turno dei giorni del banchetto, Giobbe li mandava a chiamare per purificarli; si alzava di buon mattino e offriva olocausti secondo il numero di tutti loro. Giobbe infatti pensava: «Forse i miei figli hanno peccato e hanno offeso Dio nel loro cuore». Così faceva Giobbe ogni volta.
Gb 1, 4-5
E così ragionava Giuda Maccabeo scoprendo che i suoi uomini, morti, avevano peccato di idolatria:
Giuda poi radunò l’esercito e venne alla città di Odollam; poiché si compiva la settimana, si purificarono secondo l’uso e vi passarono il sabato. Il giorno dopo, quando ormai la cosa era diventata necessaria, gli uomini di Giuda andarono a raccogliere i cadaveri per deporli con i loro parenti nei sepolcri di famiglia. Ma trovarono sotto la tunica di ciascun morto oggetti sacri agli idoli di Iamnia, che la legge proibisce ai Giudei; fu perciò a tutti chiaro il motivo per cui costoro erano caduti. Perciò tutti, benedicendo l’operato di Dio, giusto giudice che rende palesi le cose occulte, ricorsero alla preghiera, supplicando che il peccato commesso fosse pienamente perdonato. Il nobile Giuda esortò tutti quelli del popolo a conservarsi senza peccati, avendo visto con i propri occhi quanto era avvenuto per il peccato dei caduti. Poi fatta una colletta, con tanto a testa, per circa duemila dramme d’argento, le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio espiatorio, agendo così in modo molto buono e nobile, suggerito dal pensiero della risurrezione. Perché se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. Ma se egli considerava la magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota. Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato.
2Mac 12, 38-45
Come molti sapranno, questo passo – che storicamente è stato addotto a fondamento biblico delle indulgenze per i defunti – fu una delle “molle” che spinsero Lutero a ritagliare il Canone delle Scritture, col pretesto di purificare la Bibbia dalle parti non scritte in ebraico (i libri dei Maccabei, infatti, compaiono direttamente in greco).
C’è però un passo neotestamentario assolutamente canonico per tutti i cristiani che mi ha sempre fatto ripensare alla pagina maccabaica. Nella Prima lettera ai Corinzi l’Apostolo scrive infatti:
Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.
Altrimenti, che cosa farebbero quelli che vengono battezzati per i morti? Se davvero i morti non risorgono, perché si fanno battezzare per loro? E perché noi ci esponiamo al pericolo continuamente? Ogni giorno io affronto la morte, come è vero che voi siete il mio vanto, fratelli, in Cristo Gesù nostro Signore!
1Cor 15, 25-31
Pagina che fino alla fine del IV secolo avrebbe dato filo da torcere (specialmente a quanti a vario titolo tentavano la mediazione con l’arianesimo affermando che la gloria di Cristo sarebbe stata soltanto “economica”, cioè destinata a essere riassorbita in un Dio monarchico alla fine dei tempi): essa ci attesta però un antichissimo e rarissimo fenomeno liturgico, che in un contesto giudaico facilmente ci avrebbe fatto pensare a contatti con l’essenismo, mentre resta misterioso a Corinto. Ovvio, di misteri iniziatici se ne trovavano più a Corinto che nel deserto di Giuda, quindi non possiamo escludere (e difatti non è stato escluso) che vi sia stata un’influenza di qualche culto ctonio nella pratica della primitiva comunità cristiana locale: il fatto però è che Paolo attesta che «alcuni si fanno battezzare per i morti». Anzi, questa sarebbe un’importante curiosità: il fatto è che Paolo non sembra biasimare l’uso in sé, tanto che lo impugna come argomento a sostegno della risurrezione dei morti («Legem credendi statuat lex orandi» lo avrebbe scritto Prospero di Aquitania, ma come si vede la storia del cristianesimo ha molti casi di formalizzazioni tardive di principî atavici).
Questa arcaica forma di anabattismo subapostolico dovette restare un fenomeno assai marginale (anzi dovette scomparire pressoché subito): le dispute che avrebbero portato alla fissazione nel Simbolo niceno-costantinopolitano della frase “confesso un solo battesimo per la remissione dei peccati” vanno riferite al tema dei lapsi durante le persecuzioni, non a quello dell’intercessione per i defunti. Comunque premettevo che questa pagina mi ha sempre fatto pensare a quella maccabaica, e per me è stata una scoperta (e una conferma) di non poco conto trovare nei rimandi a margine dell’edizione critica Nestle-Aland proprio il riferimento al passo “apocrifo”: due protestanti (i due editori, marito e moglie) ammettono che l’odiato riferimento maccabaico – per estirpare il quale Lutero mutilò le Scritture – si ritrova in nuce in una delle più famose e importanti lettere paoline.
Immagino che sorgano due domande almeno, nel lettore:
perché Lutero odiava tanto il passo maccabaico?
perché l’usanza di cui nella pagina paolina è andata perduta?
Le risposte possono considerarsi il complemento del “negative” con cui da principio avevamo sciolto “ad modum Sancti Officii” il problema posto dal lettore.
La guerra di Lutero contro i Maccabei
Lutero non odiava il passo in sé, ma ciò di cui esso era diventato puntello ricorrente, ossia la vendita delle indulgenze. Uno degli ecclesiastici a cui il tormentato agostiniano gagliardamente si opponeva era il domenicano Johann Tetzel, che stava raccogliendo in Germania ingenti somme largamente destinate alla Fabbrica di San Pietro in Roma: «Appena una moneta gettata nella cassetta delle elemosine tintinna, un’anima se ne vola via dal Purgatorio» – è il suo claim più famoso, essendone la memoria tramandata nella 27esima delle famose 95 tesi di Lutero (che non furono affisse al portone della chiesa di Wittenberg). Fortunato anche quello, iperbolico fino al blasfemo: «Posso salvare un uomo che abbia violentato la stessa Madre di Dio». Tetzel ebbe diversi scontri con Lutero ma morì quando la protesta dell’Agostiniano albeggiava appena (anzi, pare che il Domenicano abbia ricevuto in extremis una sua visita). Il punto è che questa concezione burocratica e giuridica delle indulgenze – la sola che Lutero vide in vita, sia in Germania sia in Italia – reificava l’intera operazione nell’offerta pecuniaria e prescindeva dalla contrizione (ancorché imperfetta).
Bisogna precisare allora che il contesto maccabaico faceva sì che la menzione della colletta da mandare a Gerusalemme non fosse tout court trasponibile sui proventi della vendita delle indulgenze da mandare a Roma: il sacrificio templare aveva costi ingenti, relativi al bestiame da immolare e al legno per offrirne l’odore soave alle divinità. I soldi trasferiti a Roma finivano nelle magnifiche volte della basilica Vaticana (oltre che nelle necessarie “oliature di porte altrimenti cigolanti”), e se qualche spesa di macelleria alimentavano esse erano sempre al dettaglio e mai destinate ad alcuna divinità.
Il versante peggiorativo del contesto cinquecentesco, inoltre, non si fermava al solo fatto che denaro e coscienza fossero in un rapporto inversamente proporzionale, ma si spingeva alla sua conseguenza estrema: se l’indulgenza è una formalità burocratica, il suo effetto deve essere garantito non appena della formalità si siano espletate le condizioni. Il soldo cade nella cassetta – ricordiamo – e l’anima vola dal Purgatorio. Difficile contestare Lutero su questo punto, considerando che lo stesso Tridentino avrebbe avuto cura di raccomandare «l’eliminazione o la correzione degli abusi e degli eccessi». Ma intanto lo strappo era fatto: più di qualcuno era convinto che si potesse lucrare (piuttosto facilmente anche) la certezza della salvezza di un proprio caro. E chiunque ora può vedere che questo asserto è del tutto avulso dall’humus scritturistico sopra esaminato. Il punto è che «siamo salvati nella speranza» (cf. Rom 8, 24), mentre il nostro uomo vecchio vorrebbe sempre mettere da parte qualche garanzia, specie sull’aldilà. Ma si tratta – per dirla con Benedetto XVI – di «un motivo […] importante per la prassi della speranza cristiana»:
Nell’antico giudaismo esiste pure il pensiero che si possa venire in aiuto ai defunti nella loro condizione intermedia per mezzo della preghiera (cfr per esempio 2 Mac 12,38-45: I secolo a.C.). La prassi corrispondente è stata adottata dai cristiani con molta naturalezza ed è comune alla Chiesa orientale ed occidentale. L’Oriente non conosce una sofferenza purificatrice ed espiatrice delle anime nell’« aldilà », ma conosce, sì, diversi gradi di beatitudine o anche di sofferenza nella condizione intermedia. Alle anime dei defunti, tuttavia, può essere dato « ristoro e refrigerio » mediante l’Eucaristia, la preghiera e l’elemosina. Che l’amore possa giungere fin nell’aldilà, che sia possibile un vicendevole dare e ricevere, nel quale rimaniamo legati gli uni agli altri con vincoli di affetto oltre il confine della morte – questa è stata una convinzione fondamentale della cristianità attraverso tutti i secoli e resta anche oggi una confortante esperienza. Chi non proverebbe il bisogno di far giungere ai propri cari già partiti per l’aldilà un segno di bontà, di gratitudine o anche di richiesta di perdono? Ora ci si potrebbe domandare ulteriormente: se il « purgatorio » è semplicemente l’essere purificati mediante il fuoco nell’incontro con il Signore, Giudice e Salvatore, come può allora intervenire una terza persona, anche se particolarmente vicina all’altra? Quando poniamo una simile domanda, dovremmo renderci conto che nessun uomo è una monade chiusa in se stessa. Le nostre esistenze sono in profonda comunione tra loro, mediante molteplici interazioni sono concatenate una con l’altra. Nessuno vive da solo. Nessuno pecca da solo. Nessuno viene salvato da solo. Continuamente entra nella mia vita quella degli altri: in ciò che penso, dico, faccio, opero. E viceversa, la mia vita entra in quella degli altri: nel male come nel bene. Così la mia intercessione per l’altro non è affatto una cosa a lui estranea, una cosa esterna, neppure dopo la morte. Nell’intreccio dell’essere, il mio ringraziamento a lui, la mia preghiera per lui può significare una piccola tappa della sua purificazione. E con ciò non c’è bisogno di convertire il tempo terreno nel tempo di Dio: nella comunione delle anime viene superato il semplice tempo terreno. Non è mai troppo tardi per toccare il cuore dell’altro né è mai inutile. Così si chiarisce ulteriormente un elemento importante del concetto cristiano di speranza. La nostra speranza è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza anche per me [40]. Da cristiani non dovremmo mai domandarci solamente: come posso salvare me stesso? Dovremmo domandarci anche: che cosa posso fare perché altri vengano salvati e sorga anche per altri la stella della speranza? Allora avrò fatto il massimo anche per la mia salvezza personale.
Benedetto XVI, Spe salvi 48
Ecco il senso genuino e cattolico delle “indulgenze”, anche vicarie: la comunione dei santi. Viceversa, è impossibile che “la stella della speranza” sorga a mezzo di un’assicurazione lucrata mediante un’autorità che si spingerebbe allora (abusivamente) ben oltre le proprie competenze.
Che fine fece il battesimo per i morti
Ciò ci permette finalmente di rispondere alla seconda domanda, quella sulla rapida scomparsa della pratica del battesimo per i defunti. Anzitutto c’è una questione fisiologica: soltanto la prima generazione cristiana s’è potuta porre il problema del destino eterno di quei nonni morti proprio l’inverno prima che Paolo – per esempio – arrivasse a Corinto; trascorsa che fu quell’esperienza embrionale, la Chiesa dovette porsi sempre meno il problema di quanti non avevano mai sentito parlare di Cristo.
In secondo luogo, e più strutturalmente, l’autocoscienza della Comunità dei Cristiani comprese che il battesimo era sì la porta dei sacramenti e l’accesso alla via salutis, ma che quella stessa porta veniva aperta da un altro sacramento, dal quale anzi sgorgava il fiume battesimale – misticamente presagito nell’acqua del fianco di Cristo –: l’Eucaristia. Il nexus mysteriorum – quella mistica armonia delle verità di fede e delle realtà celesti comunicate in Cristo – si faceva via via più chiaro e più solido:
il battesimo ci incorpora a Cristo;
del Suo corpo noi diventiamo membra;
l’eucaristia è sacramento – ossia segno e strumento efficace – di questa comunità;
così che “comunità dei santi” e “comunione dei santi” diventano, di fatto, sinonimi;
Per questo aveva torto Lutero – purtroppo accecato nella sua ragione teologica dai gravissimi abusi di cui fu testimone – nel rifiutare l’idea che la Chiesa potesse accedere al “tesoro dei meriti di Cristo e dei santi”… ma aveva ragione nell’osservare che quell’accesso non poteva avvenire in modo burocratico, così come un imperatore può concedere (indifferentemente se per meriti o per danari) un titolo nobiliare.
Innumerevoli pagine sono state scritte su queste cose – è la cuspide dei misteri cristiani! – ma mi piace concludere ricordandone una di Leone XIII scritta nel 1902:
Inoltre la grazia della mutua carità fra i viventi, che tanta forza e incremento riceve dal sacramento eucaristico, in virtù specialmente del sacrificio si partecipa a tutti quelli che sono nella comunione dei santi. Infatti […] la comunione dei santi non è altro che una scambievole partecipazione d’aiuto, d’espiazione, di preghiere, di benefici tra i fedeli o trionfanti nella celeste patria, o penanti nel fuoco del purgatorio, o ancora pellegrinanti in terra, dai quali tutti risulta una città sola, che ha Cristo per capo e per forma la carità.
Sappiamo poi dalla fede che, sebbene l’augusto sacrificio possa offrirsi solo a Dio, pure si può altresì celebrare in onore dei santi che regnano in cielo con Dio, che li ha coronati, al fine di ottenere il loro patrocinio, e anche, come sappiamo per tradizione apostolica, per cancellare le macchie dei fratelli, che, morti già nel Signore, non siano ancora interamente purificati.
Leone XIII, Miræ caritatis
Un’ultima domanda
Proprio mentre penso di aver terminato una risposta quanto possibile sintetica e compendiosa, avverto nella mente la voce dell’ipotetico lettore di cui sopra, che forse ha ancora una domanda: ma se non dobbiamo pretendere certezze circa l’identità dei salvati… perché facciamo le canonizzazioni – con tanto di processi canonici, per giunta?
La risposta è semplice quasi quanto quella con cui aprimmo queste nostre pagine: le canonizzazioni infatti non servono a darci certezze circa l’identità dei salvati – forse ci viene da pensare in tal modo, ma a ben vedere sarebbe il sintomo di un’odiosa oligarchia dello spirito! – bensì a indicarci modelli che ci siano compagni di strada nella comunione dei santi. Basti pensare che in venti secoli la Chiesa ha impegnato la sua autorità anche per additare santi di cui neppure l’esistenza storica è assolutamente comprovata. Che cosa è importante, allora? Che si faccia comunione, che si faccia strada, che si cresca in Cristo.
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