«La sua inconfondibile voce poetica che con l’austera bellezza rende universale l’esistenza individuale». Questa la motivazione con la quale gli accademici svedesi hanno assegnato il Nobel per la letteratura alla settantasettenne poetessa americana Louise Glück.
Che cosa significa che una vita è universale? Universo, come dice la parola, è ciò le cui parti sono legate in unità: tutte le cose co-spirano, cioè respirano insieme, in armonia. La poesia intercetta questo respiro che unifica la vita dispersa in migliaia di frammenti. Infatti nel suo Cantico, poesia con la quale si inaugura la letteratura nella nostra lingua, Francesco d’Assisi chiama fratello e sorella ogni cosa, persino la morte, perché ogni cosa è figlia della Vita.
I poeti, credenti o meno, hanno fede in questa Vita con la maiuscola, tanto che lo stesso Leopardi scriveva nel suo diario: «della lettura di un pezzo di vera poesia, in versi o in prosa, si può dir quello che di un sorriso diceva Sterne: aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita» (Zibaldone).
Per i poeti la vita si fonda sulla Vita, la prima è un soffio breve, la seconda un respiro inesauribile, al quale attingere quando ci manca l’ossigeno. Dei poeti diciamo infatti che sono ispirati, perché ci donano quel respiro. E noi possiamo essere ispirati?
Affido la risposta a Wisława Szymborska, Nobel nel 1996. Nel ricevere il premio la poetessa polacca disse: «L’ispirazione non è un privilegio esclusivo dei poeti o degli artisti. C’è, c’è stato e sempre ci sarà un gruppo di persone visitate dall’ispirazione. Sono tutte quelle che coscientemente si scelgono un lavoro e lo svolgono con passione e fantasia. Ci sono medici, maestri, giardinieri così, per non parlare di tante altre professioni. Malgrado difficoltà e sconfitte, la loro curiosità non viene meno. L’ispirazione nasce da un incessante “non so”. Di persone così non ce ne sono molte. La maggioranza lavora per procurarsi da vivere, perché deve. Non sceglie il lavoro per passione, sono le circostanze a farlo per loro. Un lavoro non amato, che annoia, è una delle più grandi sventure umane».
Tutti noi quando arriviamo in riva al mare o in cima a una montagna inspiriamo forte, vogliamo trasformare in respiro, nostro, la bellezza là fuori. Il nostro corpo vuole essere «in-spirato», ricevere lo «spirito» che dà Vita. Per questo, durante l’estate, chiedo ai miei studenti di tenere un taccuino, in cui fermare i momenti di ispirazione. Quando uno di loro appunta un pensiero, una citazione, un fatto, un dolore, una gioia… apre un varco nella vita che si ripete, noiosa ed effimera, per far entrare una Vita più grande, che ci guarisce dal non senso e dalla dispersione, e trasforma il caos in universo, come quando Dante in Paradiso dice di aver visto: «legato con amore in un volume / ciò che per l’universo si squaderna».
E così a partire da quegli appunti frammentari, da quei momenti di essere ancora grezzi, chiedo ai miei ragazzi di costruire una poesia, non, come dice Leopardi, necessariamente in versi, perché l’importante è che le parole rendano trasparente l’ispirazione, l’eternità dell’istante, il momento di essere, per poi, in qualsiasi altra ora, ri-viverlo e farlo ri-vivere, motivo per cui è bene imparare a memoria le poesie: un pozzo di essere a cui attingere sempre. Così il singolo respiro diventa universale, non più effimero, individuale, solitario…
Non è un trucco didattico che li illude di essere poeti, ma un formidabile esercizio di realtà come diceva un altro Nobel: «Curiosando tra gli appunti di un poeta troviamo crocette e segni, molti ripensamenti: che cosa è successo? Il poeta ha corretto i propri impulsi iniziali. Nel processo compositivo egli fonde il razionale con l’intuitivo. Il poeta è l’animale più sano: combina analisi e intuizione — analisi e sintesi — per giungere alla rivelazione. Per questo la poesia è il più efficace acceleratore mentale. Leggerla e scriverla offrono lo strumento di conoscenza più rapido ed economico che io conosca» (Iosif Brodskij, Conversazioni).
Eppure i libri di poesia occupano spazi irrisori sugli scaffali. Molti si lamentano di non comprenderla, e hanno ragione perché è lei a dover comprendere (cum-prendere: abbracciare) noi, che spesso però non siamo disponibili al silenzio, alla pazienza e a credere ancora nella Vita.
Ne ho avuto conferma leggendo, a caso, qualche poesia della neo-Nobel, autrice a me prima ignota. Mi ha attirato la prima di una raccolta intitolata, in omaggio a Dante, Vita Nova, che traduco per voi:
«Mi hai salvato, dovresti ricordarmi.
La primavera, giovani compravano i biglietti del battello.
Ridevano, perché l’aria era piena di fiori di melo…
Ho ricordato suoni come quello, dalla mia infanzia,
risate senza motivo, solo perché il mondo è bello…
e così mi sono svegliata ebbra, alla mia età
affamata di vita e ricca di fiducia».
Se la rileggete dieci volte, respirerete meglio.
Fonte: Corriere.it