Gli espatri di laureati stanno crescendo e l’Italia fatica ad attrarre cervelli dall’estero. Servono più defiscalizzazioni, e-learning e semplificazioni normative
Abbiamo letto tutti, con grande stupore misto a sincera ammirazione, dell’impresa accademica di Giulio Deangeli, un 25enne di Padova, talentuoso studente dell’Università di Pisa e allievo della Scuola Superiore Sant’Anna, che, inseguendo con grande determinazione il suo sogno di poter un giorno contribuire alla sconfitta delle malattie neurodegenerative, in pochi mesi, dal 20 luglio al 10 ottobre, ha concentrato quel che normalmente uno studente universitario riesce a raggiungere in 12 anni: conseguire ben quattro lauree (e tutte con il massimo dei voti) in medicina, ingegneria biomedica, biotecnologie e biotecnologie molecolari. E non finisce qui, perché Deangeli ha già nel mirino la prossima laurea, entro la fine del 2020: quella magistrale in biotecnologie molecolari.
C’è di che essere fieri come italiani. Non a caso per il rettore dell’Università di Pisa, Paolo Mancarella, “l’Italia ha bisogno, in questo momento, di esempi positivi e Giulio è uno di questi”. Peccato, però, che subito dopo, con un certo qual rammarico, abbiamo appreso che, portata a termine la quinta laurea, lo stesso Deangeli volerà poi all’Università di Cambridge per il dottorato in clinical neurosciences per il quale si è guadagnato 5 borse di studio. Insomma, parafrasando la parabola evangelica, un talento che in Italia sarebbe rimasto nascosto e che invece all’estero sapranno sfruttare “chi cinque, chi due volte tanto”.
Un altro (gran) cervello in fuga (anche se Deangeli non si considera tale)? Diciamo piuttosto che è un altro (gran) cervello che in Italia non riesce a trovare il giusto spazio. Tornano alla mente le parole dell’ex governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, al Meeting di Rimini: “Per anni una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico: ciò non è più accettabile oggi. Privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza. (…) L’istruzione è un settore essenziale per la crescita”.
Secondo gli ultimi dati Istat, nel 2018 sono partiti 117mila italiani, di cui 30mila laureati. L’Italia risulta pertanto essere un Paese dove i giovani non si sentono valorizzati come risorsa e vanno all’estero sempre di più alla ricerca di un futuro migliore. Quasi tre cittadini italiani su quattro trasferitisi all’estero hanno 25 anni o più: sono poco più di 84mila (72% del totale degli espatriati), di cui un terzo sono laureati. Rispetto al 2009, l’aumento degli espatri di laureati è più evidente tra le donne (+10%) che tra gli uomini (+7%).
Un giovane laureato che parte è anche una perdita, pesante, per l’Italia dal punto di vista economico. Secondo una ricerca di Confindustria, una famiglia spende in media 165mila euro per crescere ed educare un figlio fino ai 25 anni, mentre lo Stato ne spende 100mila in scuola e università. Questo rappresenta una perdita di investimenti attorno ai 25-30 miliardi annui, di cui beneficiano tedeschi, francesi e inglesi, con tasse, innovazione e crescita. A proposito di tasse, si calcola che lo Stato italiano perde 49 miliardi di euro l’anno di gettito fiscale, di cui appunto più di 25 miliardi dai laureati all’estero.
Bastano queste poche cifre per capire quanto sia importante dare un futuro, in Italia, ai nostri migliori cervelli e ai laureati. La politica ha provato, in questi ultimi anni, a dare una risposta, introducendo per favorire il rientro dei cervelli diverse defiscalizzazioni, che tuttavia nel complesso non hanno dato i risultati sperati, e producendo qualche sforzo positivo, a macchia di leopardo, per cercare di migliorare l’attrattività degli studenti stranieri.
Come rimediare, allora? Ricette non ne mancano, ma è tempo di passare dalle parole e dagli annunci ai fatti, è urgente tornare a considerare la scuola, l’università, la formazione non come spese, magari da tagliare, bensì investimenti, asset cruciali per lo sviluppo, il futuro, la speranza di un paese, tra l’altro, che si sta impoverendo anche dal punto di vista demografico: sempre più anziani, sempre più italiani che espatriano (con numeri molto vicini ai flussi migratori del primo dopoguerra) e sempre meno nascite (la popolazione italiana, attualmente di 60,3 milioni di abitanti, è stimata in calo a 59,3 milioni entro il 2040 e a 53,8 milioni entro il 2065, l’11% in meno).
A fornire qualche ulteriore carta concreta da giocare per trattenere i cervelli italiani e attirare quelli stranieri è un recente rapporto della Rome Business School (100mila studenti di oltre 150 nazionalità all’anno), che ha individuato cinque necessità:
– realizzare un sistema di defiscalizzazione differenziato in base alla qualità delle posizioni e dei profili professionali, oltre che alle esigenze espresse dalle imprese, e che possa applicarsi sia nell’ottica di agevolare il rientro in Italia che per trattenere i potenziali in atto di andare all’estero;
– contrastare i flussi in uscita favorendo la messa a regime di un sistema di valorizzazione reale per l’entry level dei giovani laureati;
– favorire e sostenere concretamente l’internazionalizzazione dell’educazione superiore italiana, attraverso l’adeguamento delle strutture esistenti (rafforzamento dell’e-learning) e l’aumento di programmi universitari in lingua inglese;
– procedere ad una semplificazione normativa mediante creazione di visti d’ingresso specifici (modello Usa) e velocizzazione delle procedure burocratiche per favorire la circolazione di capitale umano altamente qualificato in università e imprese;
– rispondere concretamente alla domanda di formazione e competenze garantendo un coinvolgimento continuativo e strategico del fronte aziende-università/business school mediante una maggiore attenzione nei confronti della filiera formazione-lavoro che tenga conto dei reali fabbisogni di professionalità.
La partita, insomma, va giocata a livello di filiera, dalla scuola alle business school. Come ha ricordato il fondatore e Dean della Rome Business School, Antonio Ragusa: “Anche le business school possono svolgere un ruolo chiave nell’identificare le necessità del mondo del lavoro e nel fornire un supporto educativo, collegando la domanda e l’offerta. Nel contesto di crisi economica accentuata dalla pandemia globale questa funzione è ancora più importante”.
Fonte: Marco Biscella | IlSussidiario.net